L'audizione dell'ex agente del Sisde, ora 90enne, davanti alla commissione regionale presieduta da Claudio Fava, che indaga sul depistaggio di Via D’Amelio: "Chi indagava sugli attentati non sapeva neanche dove sta di casa la mafia"
Procuratori, poliziotti, tutti al lavoro sulle stragi di Capaci e Via D’Amelio “senza sapere neanche dove sta di casa la mafia”. Mentre prefetti e segretari particolari venivano pagati dal Sisde con regolarità. Così, dopo anni di tribolazioni giudiziarie, Bruno Contrada sulla soglia dei 90anni dice la sua davanti alla commissione Antimafia siciliana, presieduta da Claudio Fava, che indaga sul depistaggio di Via D’Amelio. Un’audizione iniziata poco dopo le 14 di ieri e andata avanti per più di due ore. Proprio mentre le agenzie battono le motivazioni della sentenza di condanna di Nino Madonia per l’omicidio del poliziotto Antonino Agostino, ucciso secondo il giudice Alfredo Montalto, perché aveva scoperto le frequentazioni di Madonia con uomini delle istituzioni. E tra questi c’è proprio Contrada, che mentre si diffonde la notizia è in collegamento con la commissione siciliana, affiancato dalle sue avvocate e come prima cosa mostra un foglio alla telecamera: “Come risulta da questo certificato penale, a mio carico non c’è nulla”.
Dopo la condanna per associazione mafiosa, passata in giudicato, infatti, la sentenza della Corte Europea ha ribaltato l’esito giudiziario per l’ex agente del Sisde, perché il concorso esterno non era ancora reato in Italia. Così nel 2017 gli effetti penali sono stati annullati dopo la richiesta di revisione del processo infine accolta dalla Cassazione. Di fronte alla commissione antimafia siciliana, Contrada si prende il suo tempo, scandisce, e riferisce punto per punto, aiutandosi con le sue agende, e le annotazioni e chiede il permesso di fare una premessa: “Sono stato un dirigente generale della polizia di Stato: non sono un funzionario dei servizi segreti, né uno 007, né un agente segreto, né una spia. Sono attualmente un pensionato della polizia di stato. Sono stato al servizio del Sisde, cioè al Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica. Negli ultimi 30anni, da Natale del 1992 fino ad oggi, ho avuto vicende giudiziarie, condanne, assoluzioni: in sostanza ho passato anni tra aule di giustizia, ospedali e carceri militari. Però oggi io sono un cittadino italiano e come risulta da questo documento, un cittadino con un certificato penale in cui risulta nulla”.
Questa è la presentazione dell’ex agente che quando già era distaccato al Sisde fu chiamato per indagare sulla strage di Via D’Amelio dalla procura di Caltanissetta. Un incarico affidatogli dall’allora procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, mentre contemporaneamente la procura di Palermo lo metteva sotto indagine. E lui racconta di fronte alla commissione dell’Assemblea regionale dell’Ars, minuto per minuto, come avvenne il suo incontro con Tinebra e perché: “Mi chiamò Sergio Costa, genero dell’allora capo della polizia, Vincenzo Parisi. Mi disse che Don Vincenzo – lo chiamò così – desidera che lei prenda contatti col capo della Procura nissena. Io non conoscevo neanche il suo nome, perché Tinebra era subentrato dopo la strage di Capaci”. Così Contrada racconta di essere andato dal capo della procura nissena che subito gli ammise: “Mi trovo in grosse difficoltà perché io di mafia specialmente palermitana sono completamente allo scuro”, queste sarebbero state le parole di Tinebra, secondo quanto riportato dall’ex agente del Sisde.
Il racconto di Contrada, ormai alla soglia dei 90 anni, e alle spalle anni travagliatissimi, fatti di accuse e condanne poi annullate, è quello di un contesto in cui le indagini su “una strage che sconvolse il mondo intero”, furono affidate a persone che non avevano esperienza di mafia. Né Tinebra, né tantomeno Arnaldo La Barbera, l’allora capo della Mobile di Palermo. Ricreò un gruppo di indagini sulle stragi, ma secondo Contrada “La Barbera non sapeva niente di mafia. Io per anni e anni ho conosciuto decine, centinaia di mafiosi, ho studiato la mafia e gli uomini di mafia, la mentalità, il comportamento, l’atteggiamento, il gergo anche negli anni passati, prima del 1962, anno in cui ho iniziato la mia attività a Palermo. Ho cercato di documentarmi leggendo di tutto, anche le relazioni: io posso dire soltanto una cosa che se io avessi trattato Scarantino, nel senso di colloqui, e di indagini su di lui, io dopo 24 ore mi sarei accorto che era un cialtrone e che diceva cose non vere, questo non perché io sia dotato di una particolare intelligenza ma per la mia esperienza… Presidente io non voglio apparire come quello che parla di persone che non possono più difendersi, come La Barbera, però è necessario che io le dica una cosa, ci sono funzionari ai quali non può essere affidata un’indagine non avendo anni e anni di esperienza. Non in città come Palermo: quando ho letto i nomi dei 25 componenti del gruppo investigativo per le stragi (di cui La Barbera era a capo, ndr), di questi 25, io sono stato 20anni e non li avevo mai sentiti sti nomi”.
Invece, lui, esperto di mafia, non fece indagini dopo la strage di Via D’Amelio, nonostante fosse stato a colloquio con Tinebra, Contrada ci tiene a sottolineare come attese di passare il vaglio dei sui superiori e tutti i passaggi formali per fare però “non un’indagine”, sottolinea lui, ma per “dare informazioni”: “Ho cercato sempre di operare osservando le regole – ha detto – Io ritengo che allo stato fosse opportuno attingere quanto più possibile a notizie, informazioni sui gruppi di mafia che sono ritenuti che possono avere avuto una parte in queste azioni efferate. Ed espressi quella che è stata sempre una mia opinione personale. Laddove a Palermo e in provincia accadevano fatti criminali era implicata la famiglia Madonia”. Solo informazioni quelle date da lui, mentre La Barbera non era a libro paga del Sisde: “Io sono stato 10 anni al Sisde – ha continuato Contrada – ho ricoperto incarichi anche di un certo rilievo, non ho mai sentito dire né mai qualcuno mi ha confidato che il capo della squadra mobile di Palermo, poi diventato il questore, poi il prefetto, sia stato un collaboratore del Sisde, un agente del Sisde”.
La Barbera no, in compenso c’erano i prefetti o i loro segretari particolari: “Di converso mi risulta che il Sisde veniva incontro ad esigenze economiche di funzionari di polizia, prefetti anche, il prefetto di Palermo mi risulta personalmente, ovvero Mario Iovine (prefetto di Palermo nel 1992, ndr)”. È a questo punto che Fava prova a incalzare l’ex poliziotto per capire perché Iovine venisse pagato: “C’è tutta la vicenda dei fondi neri del Sisde, un contributo che il servizio dava tramite l’ufficio perché c’era il servizio amministrativo dei fondi che era sottoposto alla corte dei conti, i servizi avevano fondi riservati”, continua Contrada. Ma perché il prefetto di Palermo? “Perché per determinati periodi era particolarmente esposto, lontano dalle famiglie”. Ma perché il Sisde, chiede ancora Fava: “Possiamo dire che fosse un collaboratore del Sisde”, chiede il presidente della Commissione. “Che collaborazione doveva dare?”, risponde l’ex agente.
Che aggiunge più in là che ad essere pagato fosse anche il segretario di Carlo Alberto Dalla Chiesa: “Il Sisde pagava lo stipendio al segretario particolare del prefetto di Palermo, un vecchio maresciallo dei carabinieri in pensione, che veniva retribuito dal Sisde con 500mila lire. Aiuto economico”. Ma infine insiste sull’impreparazione di chi guidava le indagini sulle stragi: “Anche se non l’ho mai detto a nessuno e non vorrei mai dirlo, anche perché Tinebra non è più tra noi, ma io uscendo da quell’incontro pensai ma come fa questo?”. “Professionalità, capacità, competenza, esistevano a Palermo, la polizia giudiziaria aveva risolto indagini molto complesse, quando si decide di estromettere di fatto tutta l’esperienza investigativa siciliana e l’indagine viene affidata a un gruppo costruito sulla carta, affidato a un signore che come dice lei non ne capisce nulla di mafia, il sospetto è che davvero si facesse un’investigazione professionale e forse il depistaggio ne sono anche una conferma e una conseguenza?”, chiede Fava. “Non è soltanto questo – risponde l’ex agente del Sisde – ci sta la bramosia e un’ambizione esasperati di fare carriera passando su tutto e su tutti. E quindi sostenendo delle tesi che sono manifestamente infondate, assurde. Strade investigative impercorribili”.