Alberto Orlando ha giocato solo cinque partite con la maglia dell’Italia, ma gliene è bastata una per entrare nella storia della nazionale. La prima, quella del battesimo azzurro nel dicembre del 1962, quando rifilò un poker alla Turchia, eguagliando il record di Francesco Pernigo, attaccante anni ’40 di Venezia e Verona, l’unico altro azzurro capace di realizzare una quaterna all’esordio: “Alla fine della gara si avvicinò Papà Maldini (Cesare – ndr) e mi consegnò il pallone della gara dicendomi “tieni, questo è tuo”, ha ricordato al Fatto.it. “Purtroppo l’ho smarrito. Sarebbe stato bello conservarlo insieme agli altri souvenir della mia carriera”.

Un debutto, andato in scena in quel di Bologna, coinciso curiosamente anche con quello delle nazionali nelle qualificazioni verso un Europeo (Spagna ’64). “Sono nato a Roma, nel quartiere popolare di Torpignattara il 27 settembre del ’39; ho quindi 23 anni compiuti. Giocavo prima nelle squadrette delle periferie romane, poi un bel giorno passai alla Roma. Ero centravanti, finché Foni non mi scoprì come ala destra; però come centravanti giocai la mia prima partita in Serie A a Napoli. Ed eccomi qua, ora, azzurro e pieno di felicità “, dichiarò ad un cronista della Stampa che lo intervistò negli spogliatoi subito dopo la partita, in un’epoca nella quale incursioni del genere erano ancora possibili: “E come avrei potuto sperare di segnare quattro reti, lo credi facile? È andata così – ha aggiunto – e voglio qui ringraziare il mio amico Sormani. Dicono in tanti che Sormani non abbia giocato bene, ma la sua abitudine di allargare il gioco sulle ali mi ha permesso di realizzare ben tre reti nella posizione di centravanti”.

Da quel giorno sono passati quasi sessant’anni. Oggi Orlando ha 82 anni, e da più di trenta vive con la moglie a Ferrara, ma il ricordo di quella partita è ancora vivo nella sua mente: “Come potrei dimenticare quel giorno. Giocavamo a Bologna, in omaggio alla squadra felsinea che in quegli anni era un po’ il serbatoio della nazionale. Feci quattro gol e altri due ne fece Rivera. Vincemmo 6-0. Eravamo un bel gruppo. Mi dispiace che non ci siano più personaggi come Bulgarelli, Janich, Pascutti e Cesare Maldini. La loro mancanza mi rattrista veramente tanto”. Un exploit arrivato dopo una convocazione in nazionale, allenata da quell’Edmondo Fabbri che dai posteri verrà ricordato più che altro per il fallimentare mondiale inglese del 1966, quasi inaspettata: “Quando ho ricevuto la chiamata di Fabbri, dico la verità, sono rimasto un po’ meravigliato”, ha confessato. “Non perché non credessi di meritarlo, ma semplicemente perché ero in concorrenza con Renna e Perani, due pilastri del grande Bologna di quegli anni. Probabilmente, durante la preparazione a Coverciano, Fabbri mi avrà visto particolarmente motivato”.

A risultare decisive, probabilmente, furono anche le ottime annate disputate con la Roma, riabbracciata dopo una felice parentesi a Messina chiusa con il titolo di vicecapocannoniere della serie B 1958-59, in cui si era riuscito a ritagliare un ruolo da protagonista nonostante l’arrivo di due figure sicuramente ingombranti come Manfredini e Angelillo: “Giocavo da punta centrale, ma poi quando la Roma acquistò Manfredini e Angelillo il mister dell’epoca, Alfredo Foni, mi spostò sulla fascia destra, reinventandomi come ala”. Quell’intuizione, unita alla grande capacità di adattarsi, ha fatto la sua fortuna, e anche quella della Roma, con cui nel 1961 partecipò alla conquista della vecchia Coppa delle Fiere. Il suo fiuto per il gol, con il quale ha mantenuto sempre un certo feeling, ha fatto poi il resto, convincendo Fabbri a offrirgli una chance in azzurro.

Un’opportunità colta al volo dal “fusto”, come era affettuosamente chiamato perché ai tifosi giallorossi il suo fisico scultoreo ricordava quello di un dio greco: “Per me, un ragazzo proveniente da un quartiere popolare di Roma, il calcio è stato tutto. Mi ha aiutato a risolvere tutti i miei problemi. Giocare in nazionale, assieme a personaggi come Rivera, Maldini, Pascutti e tanti altri è stato fantastico, un sogno diventato realtà”. I quattro gol alla Turchia, battuta dagli azzurri anche al ritorno ad Istanbul con Orlando nuovamente in campo, potevano essere l’avvio di un luminoso percorso con la nazionale, ma così non è stato. Oltre al doppio confronto con i turchi, infatti, il colosso di Tor Pignattara ha vestito la maglia azzurra solamente in altre tre occasioni, nonostante abbia continuato a mettersi in mostra anche dopo il passaggio alla Fiorentina di Chiappella, laureandosi capocannoniere del campionato ’64-65 a pari merito con un certo Sandro Mazzola. Nel suo racconto, però, non c’è traccia di rimpianti, né tantomeno di rancore: “Ho meritato tutto quello che ho ricevuto. Sono stato un testardo ed ho faticato tanto per raggiungere quel livello. Mi sento davvero fortunato ad aver fatto questa carriera”. Nella storia della nazionale, del resto, ci era già entrato. Il suo nome resterà sempre legato a quella memorabile partita con la Turchia. Lo stesso avversario con cui stasera, all’Olimpico di Roma, inizierà il cammino europeo dell’Italia di Mancini: “Ho molta fiducia in questa nazionale. Faccio i complimenti a Mancini per aver saputo dare un’identità precisa alla squadra, ma soprattutto per aver ricreato un clima di fiducia intorno alla squadra. Mi spiace solo che per infortunio non ci sarà Pellegrini, un figlio di Roma come me”. Non resta che augurarci che Immobile o Belotti facciano come Orlando.

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