di Gianluca Pinto
L’Italia è un paese particolare. È un paese in cui per combattere la malavita organizzata (presente in modo patologico dallo sbarco in Sicilia) sono necessarie leggi considerate dalla Cedu come una violazione dei diritti umani. È un paese dove la libera stampa combatte il libero pensiero anti padronale. È un paese dove la violenza e il cinismo del modello economico sono raccontati dal linguaggio “politicamente corretto”. È un paese in cui l’Impresa è il motore trainante, ma alcune grosse imprese sono causa di disastri come il crollo di ponti o cadute di funivie. È un paese che è stato modello per i servizi pubblici e la sanità pubblica, ora divorati dai privati. È un paese dove la violenza sulle donne è allarmante e ci si preoccupa delle desinenze. L’Italia è anche un paese che aveva un diritto del lavoro avanzato e che ora ha un massa di lavoratori sfruttati senza diritti.
Dato il rifiorire di riferimenti a sacre immagini da parte di alcuni esponenti politici, nessuna meraviglia sul fatto che da questi venga considerato naturale il ritorno al lavoro come maledizione divina, così come in origine sancito. Sappiamo, infatti, che nelle Sacre Scritture il lavoro si presenta come maledizione di Dio e che a renderlo meno “maledetto” e a definirlo anche nella quantità e qualità del “sudore” ci ha provato con fatica, nel secolo scorso, l’uomo. Ricordando ai portavoce della classe padronale il discorso della pianura – “Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione” (senza altre specifiche se non la ricchezza in quanto tale) –, consiglierei di gestire con disciplina cistercense gli ineducati riferimenti ad antichi simboli collettivi che rischiano di essere poco agibili per la di costoro rappresentanza stessa.
Detto ciò, il fatto che la destra che rappresenta il liberismo spinto sostenga un modello in cui il profitto debba essere ricavato anche dall’erosione del diritto del lavoro (ivi compresa la sicurezza) e dallo sfruttamento dei lavoratori non mi stupisce. Quello che mi lascia con l’amaro in bocca, invece, è l’accostamento piuttosto ambiguo tra lavoro e immigrazione, e tra lavoro nero e Reddito di Cittadinanza (come se fosse legato a quest’ultimo) che ho sentito proporre da Enrico Letta. Se si deve per forza affrontare il tema dell’accoglienza in termini di tornaconto dal punto di vista della forza lavoro (già qui potremmo parlare per ore, perché il cinismo delle radici di questo pensiero è quasi spregiudicato) mi sarei aspettato un collegamento completo e logico tra: emigrazione, immigrazione, lavoro e, non ultimo, il tanto vituperato reddito di cittadinanza.
Chi emigra dall’Italia, infatti, non è solo il ricercatore o il laureato, ma anche lavoratori di vario genere; questo a causa dei salari e delle condizioni di lavoro (dicesi in italiano “sfruttamento”) in certi settori nel nostro paese. Tali condizioni di lavoro sono però, per forza di cose, subite da chi non ha scelta perché in condizioni di estrema fragilità e/o di invisibilità, magari arrivato via mare per fuggire dalla fame e/o dalla guerra. Un denominatore comune alla base di tutto questo concerne la concezione di “lavoro” che dobbiamo definire noi in Italia. Date certe condizioni di lavoro, con controlli ben fatti, anche il problema del “nero” cumulato con il reddito di cittadinanza almeno si ridimensionerebbe e la presunta correlazione tra mancanza di lavoratori in certi settori e del RdC cesserebbe di far da padrone.
Mi sembra che abbiamo una destra liberista aggressiva e molto efficace nel rimescolare nel disagio delle condizioni che lei stessa auspica e sostiene, e una “sinistra” (definizione che sarebbe un perfetto argomento da disputa sugli universali) che, pur avendo tutte le condizioni favorevoli per riappropriarsi di un ruolo e di una definizione, o fa da passante o commenta senza offrire soluzioni alternative o proponendo palliativi irrilevanti ai fini di una società equa. Non noto luci in fondo al tunnel, treno che arriva a parte.