In sei anni la guerra in Yemen ha provocato circa 25mila vittime tra i militari e 15mila tra i civili. Numeri ufficiali difficili da confermare in una crisi sigillata e resa quasi impenetrabile all’opinione pubblica internazionale. In questo contesto ha operato per Medici senza Frontiere anche Federica Iezzi, giovane cardiochirurga: "Difficile restare freddi davanti a certe situazioni, specie per chi arriva da un Paese in pace come l’Italia”
Alzi la mano chi può dirsi pienamente informato su cosa sta accadendo in Yemen. Le sorti di un conflitto territoriale, originato ed alimentato dalla volontà scissionista, trasformato in guerra per corrispondenza. A 31 anni esatti dalla unificazione del Paese, fino ad allora diviso in Nord e Sud, il futuro dello Yemen è dettato dagli interessi geopolitici delle potenze di riferimento. Nata come guerra civile tra il gruppo Ansar Allah (meglio conosciuto sui media come Huthi) che controlla la capitale Sana’a, la città delle Mille e una notte magistralmente raccontata da Pasolini, e le forze militari fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh, dal marzo 2015 è diventato qualcosa di molto più grande.
Come spesso accade in crisi militari di difficile comprensione, anche in Yemen la matrice religiosa, tra islam sciita e sunnita, gioca un ruolo importante, sebbene in realtà dietro, tanto per cambiare, ci siano semplicemente motivi economici legati alle risorse. Allargando la scala internazionale degli interessi, i fronti locali rappresentano solo il trait d’union con i due Stati egemoni che si scontrano militarmente, l’Iran a sostegno di Ansar Allah e l’Arabia Saudita in appoggio al governo di Abd Rabbuh Mansur Hadi, riparato ad Aden, città portuale dell’omonimo golfo, a fine marzo di sei anni fa. Come successo per la guerra in Siria, ancora più longeva, anche in Yemen si sono creati due blocchi internazionali potenti che si minacciano a vicenda. Teheran si porta dietro Hezbollah, presente anche in Siria, e la Corea del Nord, con la Russia in stand-by, mentre sul fronte saudita hanno il loro impatto gli aiuti dei Paesi emiratini (Kuwait, Bahrein, Eau) ed alcuni africani, ma soprattutto l’appoggio degli Stati Uniti, della Turchia e delle principali potenze europee. Gli elevati interessi economici hanno trasformato un conflitto da bassa ad alta intensità. Le prime scaramucce, infatti, sono iniziate nel lontano 2004, ma è dalla primavera del 2015 appunto che l’entrata in scena delle potenze mondiali ha modificato l’impatto. Stando ai numeri ufficiali, in sei anni la guerra in Yemen ha provocato circa 25mila vittime tra le rispettive forze militari e 15mila tra i civili. Appunto, numeri ufficiali difficili da confermare in una crisi sigillata e resa quasi impenetrabile all’opinione pubblica internazionale.
Gli occhi, le orecchie e soprattutto le mani per tamponare l’emergenza umanitaria in corso in Yemen sono quelli delle organizzazioni sanitarie che operano in prima linea. Ad esempio Medici Senza Frontiere che nel corso degli anni ha attivato una decina di progetti nei vari governatorati dello Yemen, sia nel territorio controllato dagli Huthi che nel sud appoggiato dall’Arabia Saudita. In uno degli ospedali di prima emergenza sul territorio nella località di al-Mokha sulla West Coast, proprio sulla linea del conflitto, MSF ha realizzato un Emergency Surgical Center dove fino a pochi giorni fa ha operato Federica Iezzi, giovane cardiochirurga pediatrica dell’ospedale regionale di Ancona, originaria del chietino.
Dottoressa Iezzi, cosa succede in Yemen?
“Non spettano a me le analisi geopolitiche e tanto meno militari. Posso soltanto raccontare il dramma dei civili, vittime principali di un conflitto che, come gli altri, sfugge all’umana comprensione. Nel centro chirurgico di MSF abbiamo curato tutti, senza distinzioni di etnia, religione e appartenenza. Ma sono le vittime innocenti quelle che lasciano senza parole”.
Lei ha operato in un ospedale di guerra, non è così?
“Sì, la maggior parte dei feriti, e purtroppo anche delle vittime, arrivava nel nostro ospedale per le conseguenze delle azioni militari. Ferite d’arma da fuoco, mine antiuomo, bombardamenti. Difficile restare freddi davanti a certe situazioni, specie per chi arriva da un Paese in pace come l’Italia”.
In sei mesi avrà assistito a decine di drammi. Ci sono delle storie che l’hanno particolarmente colpita?
“Certo, una è capitata di domenica mentre stavo andando via dall’ospedale. Dal distretto di al-Durayhimi è arrivata un’ambulanza da dove è uscito un bimbo di 11 mesi. Tutti urlavano qasf, bombardamento. Si era appena affacciato al mondo e da quel giorno ha perso la gamba sinistra. C’erano schegge nella sua testa, alcune profonde. Al nonno del piccolo non ho potuto dire altro che ‘Abbiamo fatto il possibile, ma le condizioni rimangono molto gravi’. L’uomo aveva una lunga barba bianca e una disarmante dignità. Ce l’ho nella mia mente. Ha iniziato a piangere, seduto vicino a me e ho potuto sentire il suo dolore. Ce n’è anche un’altra molto dolorosa…”.
Racconti pure.
“Un sabato in pronto soccorso ed in sala operatoria c’erano decine di pazienti, condizione che purtroppo si ripeteva quasi ogni giorno. Osservavo i loro volti quando in pronto soccorso è arrivato un uomo dal distretto di Dhubab, nel governatorato di Taiz, saltato su una mina antiuomo. Aveva perso una gamba mentre stava lavorando per rimettere in piedi la sua casa. Qualcuno che si trovava in strada, ha preparato per lui un tourniquet (laccio, bendaggio, ndr.) perfetto dal punto di vista tecnico, per fermare l’emorragia massiva. Ed uno dei miei pensieri, in quel momento, è stato che la gente normale non dovrebbe saper fare un tourniquet e invece in guerra sei costretto a impararlo”.
Lei si è occupata soltanto di vittime e feriti legati alla guerra?
“No, ma in un certo senso casi legati al conflitto, più o meno come diretta conseguenza. Penso alle donne incinte arrivate in condizioni terribili a causa di travagli non seguiti. Placente lesionate, infezioni, sanguinamenti. Molto spesso era tardi. La mortalità infantile e neonatale è molto alta in Yemen. E poi ci sono gli incidenti stradali a causa delle strade totalmente distrutte e abbandonate come conseguenza di mine e bombardamenti e per mancanza di manutenzione”.
Cure, ma anche formazione al personale locale?
“In particolare sulle parti chirurgica, intensivistica e neonatologica, pensando a rinforzare le conoscenze di tutto lo staff sanitario per un più facile passaggio di consegne”.
A livello di approvvigionamento di farmaci c’erano carenze?
“Ad al-Mokha c’è un grosso impegno nell’uso razionale di tutti i materiali sanitari. In contesti di guerra spesso i materiali sono scarsi o non ci sono sufficienti o veloci forniture. In Italia lo spreco di farmaci e materiali è notevole”.
Ci aiuta a capire, attraverso qualche dato, la mole di lavoro affrontato nel centro di MSF di al-Mokha?
“Il dato complessivo dei ricoveri solo nel 2020 è di oltre 6.600 pazienti a cui si deve aggiungere almeno il doppio dei pazienti visti in pronto soccorso e poi non ricoverati a seconda dell’intensità e della tipologia delle ferite e dei traumi. Ricordo turni in cui arrivavano ambulanze con a bordo fino a 10 pazienti contemporaneamente”.
Quanti internazionali lavorano nell’ospedale di Medici Senza Frontiere dove è stata lei?
“Relativamente pochi, circa una decina. In tutti i Paesi in cui opera Msf lo staff internazionale è sempre affiancato da quello nazionale che svolge un ruolo fondamentale: complessivamente nell’ospedale dove operavo lo staff locale conta più di 200 professionisti mentre le uniche figure ‘internazionali’ sono quelle di coordinamento, i chirurghi e gli anestesisti. Le nostre missioni sono relativamente brevi e vanno da un periodo di 3 a 6 mesi”.
Il personale ‘straniero’ da dove arriva?
“Da tutto il mondo. Australiani, belgi, tedeschi, francesi, scandinavi e ovviamente italiani. È sempre estremamente interessante conoscere professionisti da diversi Paesi e dunque diverse culture”.
Qual era la sua giornata tipo ad al-Mohka?
“Il personale internazionale è alloggiato in una guest house non distante dall’ospedale e i trasferimenti sono possibili solo a bordo di un mezzo di MSF. Si arriva in ospedale il mattino presto e alle 8 parte il giro-visite, compresa la terapia intensiva. A seguire inizia l’attività operatoria con una decina di interventi più le urgenze che purtroppo non mancano e allora si raddoppia. Si resta in ospedale fino al tardo pomeriggio, sempre a seconda della giornata”.
Poi il ritorno in quella che si può definire casa.
“Esatto, ma ripeto, gli orari sono molto flessibili, c’è la reperibilità costante, spesso siamo stati svegliati di notte per mass casualty. La sera, oltre al pasto, era l’occasione per conoscersi, condividere esperienze e racconti con gli altri membri dello staff”.
I contatti con parenti e amici a casa?
“La connessione internet è satellitare, il governo della zona garantisce sei ore di energia elettrica al giorno, per cui si viveva col generatore h24. Non ho visto come negativa la carenza della tecnologia, è servita per ritrovarmi”.
Adesso è tornata al lavoro nel reparto di cardiochirurgia pediatrica dell’ospedale regionale di Ancona: un bel salto.
“Spero di potermi riabituare a questi ritmi, ma dopo un’esperienza simile il compito è davvero gravoso”.