Politica

G7, la foto di gruppo dei leader mondiali mostra un dettaglio sfuggito alla claque pro-Draghi

Le tifose alla Lilli Gruber del quarterback leggerino Mario Draghi, la claque da loggione con gli Alessandro De Angelis precettati all’applauso per il premier a prescindere, questi megafoni dell’opinione prefabbricata colà dove si puote ciò che si vuole, l’hanno osservata la foto di gruppo dei partecipanti al summit del G7 in Cornovaglia? Hanno esaminato la disposizione dei personaggi, le collocazioni dove nulla è lasciato al caso e che registrano i differenti pesi contrattuali dei soggetti immortalati? Si sono resi conto che il nostro uccelletto saltabeccante, in divisa da bancario (o da sposo di paese) anche nel verde paesaggio marino della Cornovaglia, era stato relegato in seconda fila e il suo incontro con l’imperatore del mondo Biden declassato a un formale scambio di convenevoli in coda al meeting; nonostante la provinciale grancassa mediatica nazionale che pronosticava per il nostro “Migliore tra i Migliori” ruoli da leader continentale e da grande consigliori della politica mondiale.

Ma, al di là delle facilonerie di una stampa mediocremente cortigiana, i pesi restano tali nel contesto internazionale e l’Italia risulta un soggetto ai margini, tanto dal punto di vista politico che economico. E non basta certo un whatever it takes virato a tormentone per trasformare in oro zecchino leadership di princisbecco. Per di più trascurabili per il pervicace servilismo nei confronti del potente di turno, che rende la loro voce/opinione tranquillamente trascurabile. Specie quando – come nel caso dell’attuale compagine governativa – il profilo è quello ben poco interessante di una modesta restaurazione orleanista francese (la “monarchia di luglio” che, dopo la repressione borbonica e i moti rivoluzionari del 1830, instaurò con Luigi Filippo, del ramo cadetto degli Orleans, il governo degli affari e degli scandali)

Certo, occasioni come questo G7 hanno prevalenti funzioni di immagine e teatralizzazione, eppure ci si potrebbe ritagliare un ruolo da protagonista per chi avesse il coraggio di gettare sul tavolo i veri problemi, rimossi per non accendere il clima e rovinare la digestione ai convenuti. Uno spazio autonomo cavalcando temi originali.

Operazione improponibile per le statue di cera che compongono il consesso, come si è visto per il problema delle incontrollabili dinamiche centrifughe in materia fiscale proprie delle mega-ricchezze ormai transnazionali. Se ne è parlato per un istante e poi il sarcofago si è richiuso sui nostri governanti, pietrificati dalla presa d’atto di quelli che sono i reali rapporti di forza tra chi presidia i confini degli Stati-nazione e chi si è messo in condizione di prendersene gioco.

Così come si potrebbe affrontare la questione che gli Stati Uniti, impantanati nelle sabbie mobili della crisi economica da svariati decenni (nel 2019 il deficit Usa era di 22.719 miliardi, a fronte di un pil di 21.433), stanno cercando ancora una volta vie d’uscita muscolari e belliciste che rischiano di precipitarci in una nuova Guerra Fredda. Con il piccolo particolare che stavolta non c’è in campo soltanto una potenza militare arretrata come l’Unione Sovietica, bensì un colosso economico dalle dimensioni continentali quale la Cina. Contro cui gli armamentari argomentativi tradizionali si rivelano con le polveri bagnate.

Come la stantia predicazione sui diritti umani, accolta ormai dalle platee dei destinatari alla stregua di una fastidiosa messinscena e un’intollerabile provocazione; accertato che l’Occidente, Stati Uniti in testa, agisce sugli scacchieri internazionali in base alla legge della giungla. A dispetto dell’immagine artefatta.

Se si vuole davvero servire la causa occidentale bisognerebbe ritrovare coraggio e fantasia politica. Non solo nelle kermesse tipo G7 ma in tutte le sedi internazionali. Come l’Italia seppe fare al tempo di Enrico Mattei nei confronti del Terzo Mondo. Certo, i mandanti della sua uccisione probabilmente furono gli stessi (CIA e MI6) che avevano organizzato il colpo di Stato in Iran, facendo cadere nel 1953 il primo ministro democraticamente eletto Mohammad Mossadeq. Gli apprendisti stregoni che così ci hanno regalato il regime degli Ayatollah. Magari potremmo iniziare, all’insegna dell’indipendenza di giudizio, affrontando la questione di un Occidente che affida la tutela dei suoi declinanti interessi petroliferi a scherani come al Sisi, magari eleggendo a questione nazionale l’assassinio di Giulio Regeni e l’illecita detenzione di Patrick Zaky. Quegli orridi dittatori con cui il Don Abbondio Mario Draghi dichiara che bisogna convivere. Per quieto vivere, come nell’omaggio vassallatico ai potenti della terra che gli offrono in cambio uno strapuntino. Intanto dal loggione si abbandonano a gridolini entusiastici per la sagacia del Migliore.