Agli elettori “storici” del M5S che hanno sostenuto ed accompagnato la creatura fondata da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio dall’inizio e cioè fin dai tempi dell’ostracismo assoluto e poi della delegittimazione metodica è toccato paradossalmente, dopo la fatidica e travolgente vittoria del 2018, assistere e purtroppo anche subire “cambi di passo”, inversioni di rotta, fughe in avanti, colpi di scena o provocazioni di cui credo a questo punto farebbero volentieri a meno. Il primo pensiero in proposito non può non andare al fondatore nonché garante Beppe Grillo che, se per lunghissimo tempo ha saputo quasi miracolosamente comporre dissidi interni, fare mediazioni politiche necessarie e mantenere la bussola del M5S su principi e priorità inderogabili, dalle consultazioni per la nascita del governo Draghi in poi sta contribuendo a confondere, destabilizzare e disorientare ulteriormente gli eletti e più ancora i residui elettori.
Per sostenere il governo Draghi e persuadere gli iscritti ad approvare una scelta quantomeno difficile, Beppe Grillo si è fatto personalmente garante e sponsor senza riserve della “rivoluzione green” del super-ministero della Transizione Ecologica, arrivando a confezionare un quesito sostanzialmente ingannevole. A distanza di pochi mesi è sufficientemente chiaro come la condizione posta a fondamento di quel Sì non si stia realizzando per il semplice motivo che il ministero non è super, è fortemente condizionato da interessi tutt’altro che green ed il ministro Roberto Cingolani è tutt’altro che grillino.
Poi c’è stato l’improvvido video a difesa del figlio e compagni accusati di stupro, strumentalizzato politicamente oltre i limiti della civiltà e della decenza, agitato mediaticamente come una clava contro il M5S, senza tenere minimamente conto che si trattava dello sfogo di un padre e di una vicenda dai contorni alquanto controversi e dalle molte incongruenze. Ma rimane abbastanza incomprensibile come il fondatore del M5S non potesse prevedere l’uso che se ne sarebbe fatto e le ricadute sul M5S in un passaggio difficilissimo in quei giorni lontanissimi, più di quanto lo sia oggi, da una positiva risoluzione.
Ma la mossa che mi ha lasciato a dir poco attonita è stata la visita di Grillo all’ambasciata cinese: avvenuta in concomitanza non casuale con il G7 all’insegna dei ritrovati rapporti tra Europa e USA dopo l’era Trump, era finalizzata al consolidamento – a dire il vero abbastanza tardivo e non adeguatamente incisivo – di una strategia di contenimento dell’espansione economica e geopolitica della Cina, ancor più rafforzata e agguerrita dopo il Covid, gestito con la “nota trasparenza” grazie alla compiacente copertura dell’Oms.
Le simpatie incondizionate di Grillo per la Cina e più in generale per i paesi in mano ad autocrati non sono una novità: al Parlamento Europeo aveva anche contrapposto in negativo la democrazia parlamentare alla democrazia diretta ma in quella circostanza voleva giustamente valorizzare il referendum e tutti gli strumenti della democrazia diretta. Solo che ora bisognerebbe domandargli, quando si entusiasma per l’adesione dell’Italia alla “Via della Seta” e pubblica sul suo blog il rapporto intitolato “Xinjiang. Capire la complessità, costruire la pace” dove vengono tacciate di “sensazionalismo” le accuse mosse “dagli Usa e dai loro principali alleati sul presunto genocidio uiguro in atto nello Xinijang”, se crede in buona fede che gli uiguri come i cittadini di Hong Kong, prigionieri oltre che perseguitati, possano godere della democrazia diretta.
E vorrei anche chiedergli cosa pensa della damnatio memoriae sull’anniversario della carneficina di Piazza Tienanmen di cui non è mai stato reso noto il numero delle vittime, impossibile da commemorare ad Hong Kong ufficialmente per una misura anti-Covid, ma che si inserisce perfettamente nell’inasprimento della feroce repressione del dissenso attuato con le più recenti disposizioni liberticide dal governo cinese.
Quanto alla battuta scherzosa al tempo degli incontri ravvicinati che Grillo ebbe nel 2019 con l’ambasciatore cinese sulla “tonnellata di pesto alla settimana per incoraggiare gli scambi economici” in vista dell’accordo sulla “Nuova via della seta” ricorda il pragmatismo spregiudicato e amorale inaugurato da Bill Clinton che vige già dai tempi di Tienanmen a favore del colosso cinese. Allora poco dopo la strage, aborrita a parole da tutto l’Occidente, la Cina ottenne dall’America di Clinton la clausola nazione economicamente più favorita negli scambi commerciali in nome della tirannia del business. Oggi, purtroppo, è l’Italia ad avere per prima in Europa firmato entusiasticamente il memorandum Italia-Cina durante il Conte-1 e ora, mentre l’America di Biden cerca per motivi ovviamente non solo umanitari di coinvolgere un’Europa già abbastanza tiepida nel contrasto alla Cina su lavori forzati e diritti umani violati, l’Italia è di fatto vincolata ad un accordo privilegiato nonché sperequato, a favore dei cinesi imposto a Conte da Beppe Grillo e dal M5S, prima della svolta atlantista vera o presunta.
Per fortuna alla fine Grillo ha varcato la soglia dell’ambasciata cinese in solitudine perché Giuseppe Conte che doveva essere al suo fianco all’ultimo momento ha rinunciato per motivi sopravvenuti “di ordine familiare” come ha cercato di spiegare con qualche imbarazzo da Lucia Annunziata a Mezz’ora in più. E comprensibilmente ha provato a smorzare le polemiche giudicate “strumentali” (fino ad un certo punto) ma ha anche voluto precisare che “l’alleanza Atlantica è un pilastro così come l’Ue”.
Poi con l’aggiunta della “utilità di poter dialogare con tutti ovviamente nel contesto dell’Unità atlantica e dell’Ue” è auspicabile che il nuovo leader del M5S abbia anche voluto indicare in modo abbastanza chiaro e una volta per tutte il superamento dell’equidistanza tra le democrazie occidentali e le autocrazie, per usare un termine tecnico, di Cina e Russia.