Voglio scrivere su un tema che mi ha toccato e che ha coinvolto degli amici svizzeri e che a mio avviso è rivelatore di una tendenza.
Gli svizzeri, da cui dobbiamo solo imparare in termini di partecipazione democratica, votano ogni tre mesi via referendum e il 13 giugno hanno bocciato una legge approvata a grande maggioranza nel Parlamento (e sostenuta da quasi tutti i partiti al governo federale) basata sul taglio delle emissioni di CO2, una legge che doveva sostanziare gli impegni sulla neutralità delle emissioni entro il 2050 dimezzandole, entro il 2030, rispetto a quelle del 1990. Oltre che su questo, i cittadini elvetici si sono espressi anche contro il divieto di pesticidi sintetici nell’agricoltura e di antibiotici negli allevamenti animali.
La discussione ha mobilitato il paese e ha determinato una affluenza al voto del 60% che è al di sopra della media per i referendum. Il margine con cui hanno vinto i No è contenuto. Il No ha stravinto nelle campagne, il contrario nelle città. Le motivazioni si trovano essenzialmente nella preoccupazione che questi impegni si traducano in una limitazione economica all’economia fossile tradizionale e, in ultima istanza, che siano solo un costo per le famiglie e che non vi sia redistribuzione dei prelievi e delle risorse. Bene essere verdi ma solo se è gratis. Si possono trovare altre notizie in italiano qui.
Marco Chiesa, presidente dell’Udc Svizzera, partito politico conservatore, ha dichiarato: “la Svizzera è già esemplare in questo ambito (quello ambientale) inutile fare di più. Non saranno 8 milioni di abitanti che freneranno il riscaldamento climatico”. Verrebbe da chiedersi, allora, chi lo dovrebbe fare? Caritas Svizzera si era invece spesa per il Sì: “Il cambiamento climatico costituisce una minaccia per l’esistenza di molte persone nei Paesi più poveri. Con un elevato tasso di emissioni di gas serra la Svizzera ha una grande responsabilità nel riscaldamento globale”.
Dopo lettura e confronto volevo condividere una riflessione. Si potrebbe pensare che il cambiamento climatico sia una cosa astratta, oppure che lo vedranno solo i nipoti dei nostri nipoti. In realtà c’è una differenza importante tra gli impatti di un riscaldamento di 1,5°, 2° o 2,5°. Si tratta di maggior innalzamento dei mari, di maggiori fenomeni climatici estremi, maggiore sregolamento biologico.
Proprio la Svizzera, le sue montagne e i suoi ghiacciai, registrano già in modo significativo gli effetti del riscaldamento climatico. Da sempre è attiva negli impegni e nelle pratiche ecologiche. Il tema, però, oggi è passare dagli impegni e le dichiarazioni ai mezzi concreti per raggiungere gli obiettivi. La maggioranza dei votanti ha vissuto gli impegni ambientali come un mero costo per la classe media, e in particolare per quella suburbana. Le valutazioni di carattere economico hanno quindi prevalso su quelle esistenziali ed etiche.
La forte riduzione delle emissioni, ma anche gli impatti dei pesticidi sull’ambiente e degli ormoni nell’allevamento, rappresentano un innegabile vantaggio per il clima e per la natura e per la salute delle persone. Questi temi, così come quelli solidaristici verso i paesi più poveri, non hanno però retto di fronte al rischio di aumento del costo dei carburanti, del costo dei voli aerei, del costo della carne e dei prodotti agricoli. Di fronte al rischio che la florida economia svizzera abbia costi di produzione maggiori. Ovviamente sarebbero stati costi maggiori compensati da qualità alimentare, nel sospendere gli ormoni e i pesticidi. Costi di carburanti e voli aerei in uno dei paesi in cui si vola di più e si usano più Suv e auto di lusso. Costi che poi avrebbero favorito una economia del trasporto verde e del cibo di qualità.
Queste preoccupazioni hanno prevalso in un paese che è tra i più ricchi del mondo, che ha un Pil nominale doppio di quello italiano e in cui gli stipendi seguono la stessa proporzione. E quando si discuterà in Italia, cosa ci dobbiamo aspettare? La domanda da porsi quindi è chi deve finanziare la conversione della economia? Dietro gli incentivi alle nuove economie debbono esserci anche dei freni alle vecchie. Altrimenti arriveremo troppo tardi, quando i danni e il deregolamento climatico avrà prodotto impatti forse anche oggi impensabili. Oppure dobbiamo credere che la conversione del modello economico e delle nostre abitudini la faranno solo i cambiamenti individuali e la libera impresa? Sappiamo già che questo non avviene, occorrono invece dei regolatori in merito. Delle azioni pubbliche e collettive.
Il referendum in svizzera è stato promosso e sostenuto dall’industria petrolifera e automobilistica, dagli aeroporti, dalla ristorazione. Soggetti che vogliono rappresentare la vecchia industria inquinante e che sofistica l’alimentazione a scapito della salute. Occorre che chi vuole cambiare l’impronta ambientale sul pianeta oltre a cambiare individualmente i propri comportamenti si allei, si coalizzi per poter dare voce alle tante mobilitazioni ancora da vincere. Occorre continuare ad informare e mobilitare le persone, occorre comprendere gli egoismi e orientarli.
Abbiamo imparato anche dai gilet gialli (o gilets jaunes) francesi che non possiamo parlare di fine del mondo domani a chi pensa alla fine del mese oggi e, quindi, la transizione deve essere sia ecologica che sociale. Non è una opzione ma un obbligo.