Che la tecnologia sia una presenza costante in ogni ambito delle nostre vite, non è una novità. La protezione di dati personali e sensibili sembra essere un tema sempre caldo, soprattutto quando si parla di profilazione da parte delle aziende, algoritmi o big data. Cosa succede, però, se a fare un uso scorretto dei nostri dati personali è una persona qualunque che se li è ritrovati sottomano? È quello che è capitato a centinaia di donne che hanno raccontato le loro esperienze in fatto di violazione della privacy alla pagina Instagram Cara, sei maschilista.
Tutto comincia con il messaggio su Whatsapp che riceve Silvia (da qui in poi solo nomi inventati): “ciao, sono Francesco, l’infermiere che ti ha fatto il vaccino (…), ho preso il numero dal foglio perché vorrei conoscerti, scusami tanto”. Francesco si scusa, quindi è consapevole di aver fatto una cosa sbagliata; ha usato per scopi personali e senza consenso un’informazione che Silvia ha fornito per necessità sanitarie, violando sia la legge che il codice deontologico della sua professione.
Dopo il racconto di Silvia (con screenshot annessi, per i più scettici) si scatena un inferno di storie che si incrociano, si sovrappongono, sono spaventosamente identiche. “Mi è successa la stessa cosa con uno che lavora alle poste, si è segnato il mio nome e cognome dai pacchi che ricevo”, dice Nina. “A una mia amica dopo un colloquio di lavoro, quello delle risorse umane l’ha contattata su Facebook. Ha insistito parecchio, confessando proprio di aver tenuto il suo curriculum per poi cercarla”. La storia di Gemma è surreale: “A me è successo con un carabiniere dopo aver fatto la denuncia per furto del mio portafoglio. Dieci minuti dopo essere uscita dalla caserma ho ricevuto il suo messaggio” (su Whatsapp, ndr). Sarebbe stato un bel siparietto se fosse tornata indietro per denunciarlo una scrivania più in là. Insomma, centinaia di fotocopie dello stesso copione: tecnici della linea internet, impiegati della telefonia, poliziotti, corrieri e postini, docenti, ginecologi e chi più ne ha, per favore, non ne metta perché siamo già piene.
Da parecchi anni l’etica è al centro dei documenti di indirizzo nonché legislativi che si occupano di privacy. Già a partire dai dati personali non sensibili (es. nome e cognome) è opportuno che il titolare del trattamento consideri l’impatto di qualunque uso di tali informazioni sui diritti dell’interessato/a. Figuriamoci quando parliamo invece di dati sensibili (etnia, religione, numero di telefono…) o sensibilissimi (stato di salute, attività sessuale…). La protezione dei dati personali è un diritto fondamentale, quindi non c’è dubbio che siamo di fronte a una serie di abusi della propria posizione, da parte di chi dovrebbe impegnarsi (ed è obbligato a farlo) a maneggiare con estrema cautela le informazioni altrui, specialmente se ci si trova di fronte a un paziente o a una vittima, ancor più che a un cliente.
Spesso si tende a minimizzare questi comportamenti, a giustificarli per non infilarsi nell’iter della denuncia. Ci capiamo. È successo a tante di noi: sono solo dei messaggi, alla fin fine, non si risponde e si lascia correre. Parecchio imbarazzo, ma niente di grave, anche se già qui non ci giurerei. Poi qualcuna racconta di aver avuto un po’ di paura. Proprio accanto al nome, su uno di quei fogli strappati al riserbo, c’è l’indirizzo di casa. Chi può proteggere le ragazze – anche minorenni – e le donne dal timore di essere approcciate anche fuori dal virtuale? Me lo chiedo e mi dispiace che la risposta non sia: un po’ di umana decenza e di rispetto. Evidentemente non ci siamo ancora arrivati.
Altro elemento ricorrente? Nel raccontare/denunciare il fatto, a quasi tutte, a prescindere dalla specifica situazione, è stato chiesto: ma non avrai forse lasciato intendere qualcosa di “strano” senza volerlo? E certo, chi è che non va in caserma a flirtare un po’ quando gli rubano soldi e documenti? Per non parlare del sex appeal dell’iniezione vaccinale. E la ricarica telefonica dal tabaccaio che poi si tiene il tuo numero? Sex bomb.
Tra i messaggi arrivati alla pagina c’è anche quello di un uomo. Non è una vittima. Non che me lo augurassi, direi che ce ne sono già a sufficienza. È uno che è intervenuto nel flusso dei racconti perché aveva la soluzione pronta per noi e non poteva certo tenerla per sé: “ragazze, basta tenere i social privati e il problema è risolto”. Un po’ come quelli che vorrebbero eliminare gli stupri allungandoci le gonne.