Vederlo gironzolare lì, al diciannovesimo posto della classifica, genera sentimenti contrastanti. Per qualcuno si tratta di semplice malinconia, frutto di un presente sbiadito che non fa pendant con un passato a tinte brillanti. In altri, invece, suscita qualcosa di molto vicino all’ammirazione. Perché in qualche modo, a 42 anni, Valentino Rossi è riuscito a ridefinire il concetto di vittoria. E l’ha fatto mancandola per anni interi. La lezione è chiara: il successo non coincide più con la posizione finale, ma con la presenza, con il restare abbarbicato alla sua moto mentre gli altri, più giovani e a volte anche meno talentuosi, gli stanno davanti, lo sorpassano come se fosse un pilota qualsiasi. Un’esistenza che diventa piena solo se sorretta dall’idea di “resistenza”. Nessuno come il pilota di Tavullia è capace di generare partecipazione emotiva. Attira ammirazione e repulsione, simpatia e ostilità, rispetto e acrimonia. In parti non esattamente uguali, ma molto spesso in modo aprioristico. Eppure curva dopo curva, staccata dopo staccata, Valentino Rossi ha creato un concetto tutto nuovo di italianità. Ne è sicuro Marco Ciriello, giornalista e scrittore che, dopo una bellissima biografia su Diego Armando Maradona, ora è tornato in libreria con Valentino Rossi, il tiranno gentile (66thand2nd editore, 154 pagine, 16 euro). Un titolo che ricorda una frase di Shakespeare poi diventata un capitolo de La Freccia del Tempo di Martin Amis: “Per essere gentili bisogna essere crudeli”. Quello di Ciriello è un volume denso, con frasi che si fanno continuamente aforisma, dove si ritrova tutta la cosmogonia di Rossi. Il suo big bang sono state le minimoto, poi l’evoluzione ha fatto il suo corso: l’SR comprato a San Marino, l’Apecar per andare a scuola evitando di dover prendere l’autobus, uno Zip e poi una Aprilia Futura 125 (nome che richiama da vicino un brano di Lucio Dalla) presa in prestito dall’amico Maurizio Pagano. E sarà proprio in sella a quest’ultima che Rossi si affaccerà nel vero mondo delle corse. Un libro dove la provincia diventa segno distintivo, come nelle canzoni di Max Pezzali, anche per un atleta che per anni si è trasformato in “patrimonio dell’italianità, come tutti quelli che vincono qualcosa”. Ma anche un libro che racconta Valentino Rossi tramite un gioco di specchi. Norifumi Abe, Kevin Schwantz (definito “oscillante, un elefante sul ghiaccio che però non cade, danza sui pattini”), Giacomo Agostini, Mike Hailwood (“un punk prima del punk”) vengono narrati per quello che sono stati, ma soprattutto per il seme che hanno fatto germogliare in Rossi, per come hanno forgiato la sua idea di motociclismo, per come hanno affinato la sua tecnica grazie all’emulazione. Pier Vittorio Tondelli, Giovannino Guareschi, Tonino Guerra diventano gli altri punti sulla mappa, chiavi di lettura utili per spiegare in maniera preziosa un campione multiforme e complesso. D’altra parte, come scrive Ciriello, “Valentino è un prodotto sportivo d’élite, così pop da sembrare partorito dalla tv, passato al cinema e poi alle serie: è in continuità col tempo che cambia standogli davanti. Un pregio, ma anche un difetto“. Una biografia che procede per affreschi, che unisce tasselli fino a creare un mosaico sempre più grande dove ammirare davvero l’essenza di Valentino.
Marco, Valentino Rossi è davvero un tiranno?
Il fatto è che quella parola oggi viene utilizzata per indicare Putin, la Corea del Nord, Draghi. Io ho recuperato la sua accezione greca: signore della città. Bene, lui è il signore delle piste. È uno dei pochi atleti ancora capaci di regalare un titolo ai giornalisti, perché è anche uno che ha molte cose da dire, solo che per dirle deve diventare un tiranno.
Tu però lo definisci anche un “post-italiano”.
Nessuno rappresenta la nostra generazione meglio di Valentino Rossi. Lui è uscito dalla periferia ed è arrivato al centro, inteso anche come centro del mondo. Ha due genitori meravigliosi, che sono due italiani anomali, rappresentanti di una Italia migliore. Lui, insieme a Pavarotti e a pochissimi anni, è diventato simboli dell’Italia all’estero, ma la sua rappresentazione è quella di un’Italia non di maggioranza. Solo Federica Pellegrini, forse, ha avuto questa capacità di imporsi nel mondo. Rossi è come il Parmigiano Reggiano, come il Barolo, rimane profondamente e radicalmente italiano, ma è libero dal peso dell’italianità.
Perché la provincia è così importante nella storia di Valentino?
Fellini era un provinciale. E parla a tutti proprio perché era un provinciale. Bocca, che meglio di tutti ha raccontato la provincia, era un provinciale. Paolo Rossi era un provinciale. Riva era un provinciale. Grandi atleti, registi, scrittori sono stati provinciali. Perché lì sviluppi una visione periferica che ti permette di arrivare un posto che non è tuo e di provare a ricreare le tue radici. La provincialità diventa la sua forza. Tavullia sta a Valentino Rossi come il Teatro 5 sta a Fellini.
Rossi può essere l’antidoto a questa idea dell’accumulo di vittorie?
Stiamo allevando una generazione di persone che pensano che ci sia sempre un seguito e che debba essere vittorioso. Guarda come rimane male Cristiano Ronaldo quando non vince il Pallone d’Oro. Le serie tv raccontano una vita dove tutto deve essere sempre coperto di gloria. E così è anche per gli sportivi. Ma quelli che ci ricordiamo sono i Clough, i Renzo Pasolini, i Bielsa. Ormai ragioniamo in termini di serialità, quando invece dovremmo pensare in termini di unicità. Se viviamo per l’accumulo ci perdiamo i secondi, i terzi e i quarti classificati, che forse sono più interessanti. Ormai si vede solo il podio, si battono le mani solo al primo. Tutto diventa collezione. L’ossessione della vittoria sta rovinando lo sport.
Valentino è uno dei pochi che ancora riesce a creare epica?
Sì, è un Achille. Nel libro faccio un paragone con Renzo Pasolini, che correva per la bellezza del correre, non per la vittoria. Successo e sconfitta sono due bugie della stessa medaglia. Marc Marquez ha detto che non potrebbe mai correre per il quindicesimo posto, Rossi lo fa ed è un gesto da Ettore. Lui sta occupando militarmente la MotoGP, sta portando i ragazzi della sua Academy. Ha cambiato strategia, è l’amministratore delegato della sua gloria. Mentre tutti pensano che stia perdendo, lui sta vincendo. È come Baggio che passa al Brescia, è il Chinaglia al Frosinone di Rino Gaetano. Rossi è il Barone Rampante di Calvino: se non lo strappano dalla moto lui non se ne va.
Il suo andare ancora avanti non ha niente a che fare con il successo.
Gira a vuoto per stancare la sua ferita. Quella che è stata aperta dalla morte di Marco Simoncelli. Con lui, Valentino ha fatto cose che non aveva mai fatto con nessun altro, gli ha dato i suoi segreti. Simoncelli era l’evoluzione italiana che rispondeva ai nuovi della Francia e della Spagna, era una barriera. Con Simoncelli se n’è andato il suo erede, quindi Valentino è costretto a essere ancora imperatore.
Marco Ciriello, Valentino Rossi, Il Tiranno Gentile, 66thand2nd, 2021, 155 pagine, 16 euro.
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L’UTOPIA ROBERTO BAGGIO
Roberto Baggio ha smesso di essere un calciatore molto prima di ritirarsi. Perché nessun altro sportivo italiano è riuscito ad affrancarsi così tanto dalla sua epoca e a diventare sentimento comune, bene condiviso. I suoi dribbling, i suoi colpi di tacco, i suoi gol hanno riscritto l’estetica del calcio fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del nuovo millennio. Ma hanno creato anche una realtà parallela condannata ad oscillare costantemente fra nostalgia e nostalgismo. A poco a poco il dieci col codino si è trasformato in fenomeno pop, ha mutato forma. Prima campione, poi peculiare musa capace di ispirare libri, biopic, canzoni. Tutto con quel fascino retrò racchiuso da Cesare Cremonini in quel “Ah, da quando Baggio non gioca più”. Ma il più grande talento italiano è stato in qualche modo anche un incompiuto, uno che ha raccolto meno di quanto avrebbe potuto e di quanto gli altri avrebbero voluto. È stato uno che ha elevato le contraddizioni a sistema: un Pallone d’oro che viene ricordato anche per aver calciato alto un rigore, un buddista col fucile, un fuoriclasse che he giocato nei club più importanti della Serie A ma che ha fatto emozionare nella provincia del calcio tricolore: Firenze, Bologna, Brescia. Baggio è stato opposizione permanente. Anche quando indossava le tre casacche a strisce. Come l’olio in una situazione acquosa, non si è (quasi) mai mescolato alla perfezione con l’ambiente circostante, non si è identificato con una sola tifoseria, ma con la massa folta e trasversale cdi quelli che si professavano amanti del calcio. Ed è proprio per questo che viene ricordato sempre attraverso la stessa iconografia: maglia azzurra della Nazionale e numero dieci sulle spalle. Un’eccezione alla massima di Flaiano secondo cui “gli italiani sono sempre pronti a correre in soccorso dei vincitori”. Perché è stata proprio quella finale di Pasadena, con l’immagine delle sue mani sui fianchi e del suo sguardo a terra, a riportarlo indietro, non più dio ma essere umano, e così lo ha consegnato all’epica. Baggio è diventato così icona e santino di una generazione. Un culto che ha finito per appiattirlo in una realtà bidimensionale, dove era tutto oro. Anche ciò che non luccicava. Così facendo si è però persa la parte più importante. Quella del campione capace di seminare affetto con una finta, ma anche in grado di generare conflitti insanabili intorno a sé.
Dieci allo specchio
Nel corso degli anni è stato chiamato in vari modi. Testo sacro, unicorno, rarità. Fatto sta che il punto di partenza di ogni analisi su Roberto Baggio non può che essere l’autobiografia di Roberto Baggio, (ri)pubblicata in questi giorni da Tea a vent’anni di distanza dalla prima uscita . L’io narrante accompagna il lettore in un viaggio lungo la propria nostalgia. Quella per Firenze, esplicitata chiaramente fra le pagine del libro, ma anche per una carriera trascorsa all’ombra di una contraddizione. Il calciatore che più ha unito il Paese in maglia azzurra, è stato anche un giocatore capace di creare polarizzazioni. O con lui o contro di lui. Tutti sono stati chiamati a schierarsi, a volte anche aprioristicamente. Questa capacità divisiva Baggio se l’è portata dietro ovunque. Tranne che con la maglia azzurra. Tranne che con la divisa delle squadre più lontane dal potere. “Quando sono arrivato a Torino – ammette il Divin Codino nella sua autobiografia – mi volevano male i tifosi che avevo lasciato, mi guardavano con diffidenza i tifosi che andavo a incontrare. Una parte della tifoseria bianconera ho fatto fatica a conquistarla, un’altra non l’ho mai conquistata fino in fondo. Anche questo fa parte del mio carattere, della mia natura. Ho sempre diviso, ovunque. C’è sempre stato chi mi ha amato, e chi odiato”. Ma “Una porta nel cielo” tiene insieme anche le due anime di Baggio. Quella terrena, fatta di trofei e di giocate sublimi, e quella più spirituale. Il suo rapporto con il buddismo viene spiegato quasi in un dialogo, costante e prezioso, con Daisaku Ikeda, il presidente della Soka Gakkai International. Una figura fondamentale per Baggio, che non smorza i toni della narrazione ma che amplifica la complessità della figura del numero dieci. Una biografia, un manuale di istruzioni, ma anche un volume che ha un obiettivo preciso. Nel 2001 un Baggio ancora in attività diceva che lo aveva scritto per “dimostrare che ci sono ancora che nel frattempo sono finiti altri, non io. Mi considero un miracolo della fede dell’uomo. Al mio posto, con una gamba in meno e un ginocchio come peggior nemico, avrebbero lasciato in tanti. Ma io ci sono ancora”. Vent’anni dopo la storia gli ha dato ragione.
Piacerà a: chi vuole provare a guardare Baggio in maniera diversa. Via la maglietta, addosso i panni di narratore di sé stesso.
Roberto Baggio, Una porta nel cielo, Tea, 2021, 304 pagine, 16.90 euro
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Roberto Baggio in tre dimensioni
Il modo migliore di rendere omaggio a Roberto Baggio è raccontarlo in tutta la sua complessità, andando oltre quella copertina patinata che lo ha imprigionato negli ultimi anni. È questa la scelta di Stefano Piri, che decide di iniziare la sua narrazione proprio dalla fine, dall’immagine di Baggio che, nell’ultima partita della sua carriera, mostra alle telecamere il rigonfiamento che tormenta il suo ginocchio. L’addio al calcio diventa una liberazione, il campione viene trascinato indietro. Non più nella dimensione del mito, ma in quella umana. È questa la forza di un libro che celebra Baggio mantenendolo in questa sfera terrena, essenziale per restituire tridimensionalità, per analizzare anche i lati più oscuri e conflittuali del suo carattere. Un libro che ripercorre i momenti splendenti del fantasista, ma anche i suoi passaggi a vuoto. D’altra parte, come scrive Piri: “La presenza di Baggio intermittente, liminale, sempre sospesa sul crinale del tradimento. Vederlo giocare è come aspettare una stella cadente la notte di San Lorenzo, e se vogliamo un’esperienza più religiosa che veder giocare Maradona: bisogna essere disposti a contemplare un’assenza, aspettando qualcosa che potrebbe manifestarsi oppure no e che, se anche dovesse manifestarsi, si scioglierà nel buio un attimo dopo“. Semplicemente bellissimo.
Piacerà a: chi vuole leggere un Baggio tridimensionale, con i suoi lati splendenti, ma anche con gli angoli più oscuri del suo carattere. Con rispetto, ma senza sconti.
Stefano Piri, Roberto Baggio, avevo solo un pensiero, 66thand2nd, 2020, 205 pagine, euro 17.
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Atlante emozionale di Roberto Baggio
Un dio bulgaro e un dio italiano. Uno contro l’altro. Sullo stesso prato verde. Un inizio piuttosto inconsueto per una biografia su Roberto Baggio. Ma anche una scelta che esprime alla perfezione la volontà narrativa dell’autore. Nappi racconta il dieci d’Italia tramite una serie di zig zag temporali, spingendo avanti e indietro sul suo telecomando. C’è tutto Roberto Baggio nel suo volume (che all’inizio doveva ispirare il biopic sul campione firmato Netflix, poi le cose sono andate diversamente), ma ci sono anche i suoi affetti, i suoi compagni, i suoi amici. E i suoi nemici. Un libro che scorre via veloce, dove l’autore chiama spesso in ballo il lettore in prima persona. E così la storia di Baggio diventa storia collettiva, poema omerico che passa di bocca in bocca, che si trasmette di generazione in generazione. Fino a diventare il romanzo di una tribù intera, dell’Italia del pallone.
Piacerà a: chi vuole leggere una biografia che scorre via come un romanzo, con le emozioni a fare da bussola in un percorso alla scoperta del Baggio
Raffaele Nappi, “Roberto Baggio, Divin Codino”, Giulio Perrone Editore, 2018, 158 pagine, 13 euro.
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La solitudine dei numeri 10
Una biografia per immagini. Anzi, per tavole. Raccontare un campione attraverso i fumetti è un’operazione rischiosa. Perché serve una narrazione perfetta, un ritmo incalzante. Mattia Ferri e Nicolò Belandi ci sono riusciti grazie a un volume che distorce il concetto di tempo. La storia di Baggio non viene raccontata in maniera lineare, ma per sovrapposizioni. Il rigore contro il Brasile è inizio e fine, alfa e omega di un’epopea narrata attraverso categorie di gesti tecnici. Al resto ci pensano le tavole, davvero potenti. Alcune sono di grande impatto, come quella della doppia cicatrice sul ginocchio di Baggio. Altre un perfetto bagnami dell’iconografia del Codino, con il campione ritratto di spalle, con il numero dieci in bella vista. Una scelta che dilata le emozioni e racconta alla perfezione quel senso di solitudine che lo ha accompagnato in tutta la sua carriera.
Piacerà a: chi è alla ricerca di una chiave narrativa alternativa, ma molto potente.
Mattia Ferri, Nicolò Belandi, Roberto Baggio, Credere nell’impossibile, Becco Giallo, 2019, 160 pagine, 18 euro.