Ci risiamo. A quasi cent’anni dall’introduzione della maturità anche quest’anno si ripete questo inutile rito di stampo fascista. Non c’è nulla di più insulso, irrazionale e antico dell’esame di fine superiori.
La sua esistenza è la tangibile espressione che la Scuola italiana è polverosa, ancorata al passato, alle tradizioni, ad una cultura esclusivamente e fintamente meritocratica concepita in epoca mussoliniana. Il padre della maturità, infatti, si chiama Giovanni Gentile. E’ il filosofo e pedagogista fascista nominato ministro dal duce che nel 1923 introduce con la sua riforma (definita da Benito “la più fascista delle riforme”) l’esame con quattro prove scritte e orale su tutte le materie dell’intero corso. Un esame che risponde perfettamente alle concezioni pedagogiche di Gentile che voleva una scuola di tipo piramidale, cioè pensata e dedicata “ai migliori”.
Da allora è cambiato ben poco nella sostanza. Dal 1923 al 2021 dodici ministri della Repubblica hanno messo mano all’esame introducendo un valzer rispetto alla formazione delle commissioni, al punteggio da assegnare e alle materie da studiare; ma nessuno ha mai avuto il coraggio di aprire un dibattito sulla possibilità di abolirlo. Nemmeno una pandemia che ha provocato migliaia di morti ha fermato la maturità. Solo negli anni Quaranta, a causa della seconda guerra mondiale, vennero apportate molte semplificazioni nelle procedure dell’esame di maturità di Gentile. Successivamente, il propagarsi del conflitto anche nel territorio italiano, che a partire dal 1943 rese estremamente problematico lo spostamento di studenti e insegnanti e la convocazione stessa delle commissioni esterne, portò a disporre la sostituzione dell’esame con uno scrutinio finale. Peccato che questa idea dello scrutinio finale sia durata poco.
Oggi continuiamo a tramandare un esame voluto da un fascista che pensava di selezionare gli studenti con una prova autoritaria (non autorevole), dal sapore gerarchico e lontana dalla valorizzazione dell’uomo. Negli ultimi anni tra l’altro oltre il 99% dei ragazzi viene ammesso e pure promosso, per cui non vi è più alcuna selezione. Resta solo, per i romantici, una ragion d’essere: il rito. In questi giorni sono tornati, come le zanzare con il primo caldo, i fanatici del passaggio rituale. C’è chi va ad attingere nell’antropologia, chi nella sociologia, chi nella psicologia. Tutti a ripetere come un mantra che il rito della maturità è necessario.
Il messaggio più poetico l’ho letto nelle parole del dirigente dell’ufficio scolastico regionale delle Marche Marco Filisetti: “Il rito della partenza da quella comunità, rito nel quale occorre dimostrare di essere pronti a prender nelle vostre mani la barra del timone della vostra vita, per condurla all’approdo a cui siete chiamati, nel quale occorre dimostrare di aver fatto propria la pietra da portate al ‘cantiere’ nel quale è parte il destino di ciascuno”.
La dico come la so dire: questa tarantella del rito mi ha davvero nauseato. I giovani, oggi, sono solo terrorizzati o annoiati da questa tradizione che piace tanto agli adulti. Per un 18enne i riti di passaggio sono ben altri: la ricerca di un lavoro; l’impegno in un consiglio comunale; l’ingresso nella comunità civile; l’assunzione di responsabilità politica dal momento che a 18 anni si vota.
Da anni è stato abolito (grazie al cielo) anche l’obbligo del servizio militare e civile: una conquista democratica che ha reso più civile il nostro Paese. Non ci resta che sperare che prima o poi venga abolita anche la maturità. Chissà, magari proprio nel centenario della sua nascita potrebbe sparire per sempre. Spegnere l’ultima candelina.