Da fine novembre 2020 ad oggi in 10 Regioni italiane il numero di tracciatori assoldati per dare la caccia al coronavirus è stato ridotto. È il dato simbolo della carenza di risorse dedicate al contact-tracing in Italia: con tutta il Paese ormai in zona bianca, dopo i vaccini e il rispetto delle regole base (mascherine e distanziamento), il tracciamento doveva essere la terza arma per arginare la pandemia ed evitare una ripresa dei contagi che porterebbe a nuove restrizioni. Un argine fondamentale anche contro le varianti, come la Delta che ha già costretto la Gran Bretagna a prorogare le misure e che in Italia, dicono gli esperti, è ancora sottostimata. Per tutta la primavera l’Iss ha ribadito che per rendere possibile il tracciamento l’incidenza doveva scendere sotto i 50 casi ogni 100mila abitanti. Ora che il valore è arrivato a 25 contagi ogni 100mila abitanti, i numeri però non sono migliorati: da metà maggio la percentuale dei casi rilevati attraverso l’attività di tracciamento è stabile attorno al 40%, meno della metà del totale. Nella prima settimana di giugno i nuovi casi non associati a catene di trasmissione erano ancora 4.992. Dati che sono la conseguenza della mancanza di investimenti. Le risorse umane destinate al contact-tracing da novembre ad oggi non sono state rafforzate, con forti disparità a livello regionale, mentre l’app Immuni resta un’incompiuta che nessuno ha provato a rilanciare: è da dicembre che l’applicazione è inchiodata poco sopra i 10 milioni di download, mentre per funzionare dovrebbe essere installata almeno dal 60% della popolazione.
Con il calo dei contagi grazie ai vaccini e all’arrivo dell’estate, giugno doveva essere il mese del ritorno al tracciamento. Invece si sta assistendo a un fenomeno opposto: “Da oltre 3 mesi il trend dei nuovi casi settimanali si conferma in discesa per la ridotta circolazione del virus, come dimostra la riduzione del rapporto positivi/casi testati. Tuttavia, da 5 settimane si osserva una costante diminuzione dell’attività di testing che da un lato sottostima il numero dei nuovi casi e dall’altro conferma la sostanziale rinuncia al tracciamento dei contatti, proprio ora che la ridotta incidenza dei casi ne permetterebbe la ripresa”, commenta a ilfattoquotidiano.it Nino Cartabellotta, presidente di Gimbe. In attesa dei nuovi dati del monitoraggio della Fondazione, quelli relativi a giovedì scorso fotografano il rallentamento: nelle ultime 4 settimane il numero di persone testate settimanalmente si è ridotto del 28,3%, scendendo da 2.614.808 a 1.875.575. E si rilevano, inoltre, notevoli differenze regionali: dalle 239 persone testate al giorno per 100mila abitanti del Lazio a 64 persone per 100.000 abitanti della Puglia. “D’altronde – sottolinea sempre Cartabellotta – senza uno standard nazionale di persone testate per 100mila abitanti, le Regioni sono disincentivate alla ripresa del tracciamento perché rischiano di perdere, o di non conquistare, la zona bianca, alla quale si accede con incidenza minore di 50 casi per 100mila abitanti per tre settimane consecutive”.
Eppure, come dimostra il caso della Gran Bretagna, i vaccini da soli non bastano per contenere il virus: “Bisogna continuare a sorvegliare e tracciare“, ha ricordato nei giorni scorsi il virologo Francesco Menichetti, primario di malattie infettive dell’ospedale di Pisa, sottolineando che “non è solo il ritmo di 500-600mila vaccini al giorno che ci porta fuori dall’emergenza. Le variabili sono l’efficacia dei vaccini in funzione della circolazione delle varianti“. Lo stesso concetto lo aveva ribadito il presidente dell’Istituto superiore di sanità (Iss), Silvio Brusaferro, nella conferenza stampa dello scorso 28 maggio, quando per la prima volta dallo scorso autunno in molte Regioni l’incidenza era scesa a 47 casi su 100mila abitanti: “Questo è un dato positivo – spiegava Brusaferro – poiché è fondamentale raggiungere almeno la quota dei 50 casi per 100mila per poter intervenire sul tracciamento delle varianti e poter aprire in massima sicurezza“.
Nel frattempo però l’Italia non aveva potenziato le risorse a disposizioni del tracciamento, nonostante aspettasse questo momento dallo scorso autunno. Da fine novembre ad oggi la maggior parte delle Regioni non ha aumentato il numero delle risorse umane dedicate al contact-tracing, al monitoraggio dei contatti stretti e delle persone in isolamento o quarantena. I dati emergono proprio dall’analisi del monitoraggio settimanale dell’Iss, ma le carenze non sono mai state segnalate. La soglia di riferimento infatti risale ancora a un decreto del 30 aprile 2020, nel quale si stabiliva che “l’adeguato numero di risorse” da destinare alla ricerca e alla gestione dei contatti, stabilito “sulla base delle stime dell’Ecdc”, fosse di “non meno di 1 persona ogni 10.000 abitanti“, che doveva occuparsi non solo di indagine epidemiologica e tracciamento, ma anche di monitoraggio dei quarantenati ed esecuzione dei tamponi. Passati i mesi estivi, questi numeri però si sono rivelati del tutto inadeguati a gestire l’emergenza, tanto che su richiesta delle Regioni il governo a fine ottobre pubblicò un bando per ingrossare l’esercito dei “tracciatori” reclutando 2mila operatori.
Nonostante l’esperienza di settembre e ottobre scorso, quando l’argine del tracciamento fu travolto dalla seconda ondata del Covid, le Regioni non sembrano aver imparato la lezione. La Sardegna, prima a passare in zona bianca già in primavera per poi ripiombare in zona rossa, dispone di 0.4 tracciatori per 10.000 abitanti, la peggiore in Italia. A fine novembre scorso, secondo il primo monitoraggio dell’Iss consultabile, era a 0.5 per 10.000. Lombardia, Puglia e Marche sono altre tre Regioni con un personale per il contact-tracing ridotto all’osso: 0.6 tracciatori per 10.000 abitanti. A fine novembre la Regione amministrata da Attilio Fontana era a una 1 persona dedicata per 10.000 abitanti: significa che in 6 mesi ha quasi dimezzato il personale, invece che potenziarlo. I tracciatori sono diminuiti nel corso del 2021 anche in Abruzzo (0.7), Friuli Venezia Giulia (0.7), Umbria (0.9), Molise (da 1.5 a 1.1), Toscana (da 2.2 a 1.6) e Basilicata (da 2.7 a 1.6). In queste ultime tre Regioni però si è quanto meno rimasti sopra la soglia di 1, che invece non viene ancora superata in Liguria (0.7), Campania (0.8), Calabria e Lazio (0.9). Numeri nettamente inferiori al fabbisogno emerso nel corso dell’autunno 2020, ma tecnicamente considerati ottimali in base a quel decreto scritto agli arbori della pandemia, in cui appunto il parametro di 1 persona ogni 10.000 abitanti veniva definito includendo più figure professionali, non solo i tracciatori. In base a questo parametro, tutte le Regioni sono in regola: anche considerato il totale del personale, però, si nota come 13 Regioni su 20 abbiano ridotto le risorse umane negli ultimi 6 mesi.
“Servono maggiori investimenti e attività sul tracciamento e il sequenziamento, che per il momento si fa in modo parziale, sufficiente a dirci alcune cose ma non a coprire quanto sarebbe necessario“, ha avvertito mercoledì Massimo Galli, direttore del dipartimento di Malattie Infettive dell’ospedale Sacco di Milano. Un’allerta ribadita anche dal microbiologo dell’Università di Padova, Andrea Crisanti, che ha ricordato anche un altro fattore: “Il sistema di tracciamento dei contagi basato sull’app Immuni ha fallito perché, dietro lo schermo della privacy, si è rinunciato a renderla davvero capillare. Si tratta invece di uno strumento cardine“. Eppure, stando ai dati aggiornati al 14 giugno, finora l’app ha scovato appena 20mila positivi da inizio pandemia, inviando solo 99mila notifiche. Nessuno pubblicizza più Immuni: il risultato, come si vede dai grafici, è che dopo un aumento iniziale dei download e una ripresa durante la seconda ondata, da dicembre in poi non è più stata scaricata. Siamo fermi a 10 milioni: dovrebbero usarla almeno 20 milioni di persone in più affinché diventi realmente efficace. Se le carenze del tracciamento non ci consentono di monitorare i contagi e prevenire una ripresa della pandemia, l’ulteriore falla è l’incapacità di trovare le varianti. Come ha raccontato Il Fatto Quotidiano, a 18 mesi dall’inizio della pandemia la rete nazionale per il sequenziamento dei genomi dei campioni di SarsCov2 estratti dai soggetti positivi è tuttora ferma ai blocchi di partenza. La conseguenza è che sequenziamo meno dell’un per cento dei tamponi. Numeri che rendono l’Italia più vulnerabile di fronte all’arrivo della variante Delta.