Nelle conclusioni dei due vertici G7 e Nato ai quali ha preso parte, per la prima volta, anche il presidente americano, si fa riferimento soprattutto alle sfide in campo militare e dei diritti umani. Ma come spiega Lucio Caracciolo, politologo e direttore della rivista di geopolitica Limes, il tema principale rimane quello economico: "Pensare che Pechino si trasformi improvvisamente in una potenza democratica o che gli Stati Uniti avviino uno scontro con la Cina in nome dei diritti umani è francamente improbabile"
Tutti gli occhi del G7 e del vertice Nato, i primi ai quali ha preso parte il nuovo presidente americano, Joe Biden, guardavano a est. Alla Russia, ma soprattutto alla Cina, il principale attore internazionale che Washington ha intenzione di arginare nella sua avanzata verso l’Europa a discapito proprio degli Usa che, nel corso dell’era Trump, hanno perso il pieno controllo sul blocco atlantista. Così, nelle dichiarazioni finali dei leader, emergono toni duri nei confronti di Pechino, ma su questioni che non rappresentano certo il focus delle discussioni tra i capi di Stato e di governo: lo sviluppo militare e il rispetto dei diritti umani. “L’America sta cercando di ritagliarsi nuovamente un ruolo di leader indiscusso di un blocco non solo limitato ai membri Nato, ma che si riconosca sotto un cappello democratico – spiega a Ilfattoquotidiano.it Lucio Caracciolo, politologo e direttore della rivista di geopolitica Limes – Un marchio che reputano efficace, ma che non rappresenta certamente il motivo di questa nuova aggressività americana nei confronti di Pechino. Al centro rimangono le questioni commerciali e tecnologiche“.
Biden è arrivato in Europa, per il summit G7 in Cornovaglia e il successivo vertice Nato a Bruxelles, prima di incontrare Vladimir Putin, mostrando una strategia volta a polarizzare gli schieramenti in nome di una nuova svolta atlantista che alcuni osservatori hanno visto più come una nuova Guerra Fredda. Nei documenti finali, particolare attenzione è stata posta sulla necessità di unirsi contro le “sfide sistemiche” rappresentate dalle due potenze, in particolare dal Partito Comunista Cinese. Al centro delle conclusioni, le violazioni dei diritti umani in Xinjang e a Hong Kong e lo sviluppo dell’arsenale nucleare da parte di Pechino, oltre alle sue capacità di guerra spaziale e cibernetica che, sostengono, minacciano l’ordine internazionale. Una motivazione, quest’ultima, che Pechino ha respinto ricordando che “la spesa militare della Cina nel 2021 è di circa 209 miliardi di dollari, solo l’1,3% del suo Pil e meno del livello dei Paesi della Nato che è del 2%”. La spesa militare dei trenta Paesi della Nato, invece, “dovrebbe toccare quest’anno 1.170 miliardi di dollari, oltre la metà di quella globale e 5,6 volte quella della Cina”. Il potenziale nucleare Nato, infine, “è 20 volte” quello di Pechino. Senza dimenticare che la Cina sostiene di portare avanti una politica militare “di natura difensiva”. “Questo tipo di messaggi rappresentano una tattica che gli Usa ritengono utile per imporsi come leader non solo della Nato, ma di un blocco più ampio che si riconosca sotto il cappello democratico. Ma pensare che Pechino si trasformi improvvisamente in una potenza democratica o che gli Stati Uniti avviino uno scontro con la Cina in nome dei diritti umani è francamente improbabile”, spiega Caracciolo che sul tema si è esposto anche con un editoriale su La Stampa.
Ma all’interno dei Paesi Nato, e anche del G7, Biden non ha raccolto un totale e incondizionato sostegno tra gli Stati europei che, a vari livelli, hanno instaurato rapporti economici importanti con la Russia e soprattutto la Cina: “Mosca mantiene la sua leadership in campo energetico, mentre Pechino gode di un ventaglio più ampio che va dal commercio di beni alle tecnologie avanzate, oltre a un ampia massa demografica che rappresenta un mercato ancora troppo importante per alcuni prodotti (come ad esempio quelli del settore automotive tedesco, ndr). Senza dimenticare la grande capacità di penetrazione e di lobbying in diversi Paesi”, aggiunge il politologo.
Così, mentre il presidente francese, Emmanuel Macron, si affrettava a ricordare che “il rapporto con la Cina va oltre la questione militare. È una grande potenza con la quale noi lavoriamo su questioni globali, per esempio il clima“, la Cancelliera tedesca, Angela Merkel, sosteneva che “non si può semplicemente ignorare la Cina, ma non bisogna nemmeno sopravvalutare” la situazione, “dobbiamo trovare il giusto equilibrio” tra deterrenza e dialogo. “Ma non ci sono solo questi due Paesi ad avere interessi con Cina e Russia – aggiunge Caracciolo – Anche la Gran Bretagna, scatenata sul fronte anti-russo, ha posizioni meno nette sulla Cina, visto che la piazza finanziaria di Londra non può fare a meno di Pechino. Così come l’Italia non può ignorare quel Memorandum of understanding (col quale si è formalizzata l’adesione di Roma, primo Paese del G7, alla Belt and Road Initiative voluta da Xi Jinping, la Nuova Via della Seta, ndr) firmato da Giuseppe Conte durante il suo primo governo, nel 2019. Questo ha creato un forte legame tra i due Paesi che può essere rimodellato, ma difficilmente eliminato”.
Anche perché, come sostenuto dallo stesso Caracciolo, Biden in cambio non offre ai Paesi del G7 o dell’Unione europea la possibilità di avere un ruolo decisivo nelle scelte di primo piano nei vari ambiti. “Sulle cose che contano noi decidiamo, voi applicate – ha scritto nel suo editoriale -Per il resto imparate a cavarvela da soli. Non facciamo chirurgia ordinaria, solo salvavita”. Tradotto: se non intralciate i nostri piani e vi allineate, possiamo garantirvi il nostro intervento in caso di estrema difficoltà, ma nessun assistenzialismo su scenari che non interessano Washington, come ad esempio la battaglia internazionale sul futuro della Libia, dalla quale dipende anche la futura gestione del fenomeno migratorio.
Troppo poco per chiedere ai Paesi dell’Ue di rinunciare a una partnership economicamente vantaggiosa. Gli Usa, quindi, dovranno alzare l’offerta per riscoprire la vecchia unità nel blocco atlantista e “devono mettere ordine in casa propria dopo il 6 gennaio scorso (giorno dell’assalto al Campidoglio da parte dei sostenitori di un Donald Trump appena sconfitto alle elezioni, ndr). Deve cercare di ritrovare l’unità in un Paese diviso al suo interno come mai prima d’ora”. Mentre la Cina “è stata chiusa per millenni in un mondo tutto suo. Deve cercare di capire il mondo esterno e abbassare i toni a volte arroganti. Solo così potrà crescere ancora”.