Ieri al supermercato dopo aver raccolto nel carrello tutto ciò che mi serviva, mi sono diretto alla cassa. Gentilissima, la cassiera ha imbustato i prodotti e atteso che pagassi: “Bancomat o carta di credito?”. Sapevo di non averli con me e ho frugato nella tasca alla ricerca dei contanti che ero certo di possederne a sufficienza e invece: dei quaranta euro che servivano potevo disporne solo di venti. La cassiera, che mi aveva finora dato del lei, si è rivolta a me col tu, comprensiva e nient’affatto colpita della mia imprevista povertà. Quel tu, persino affettuoso, certo per me sorprendente è continuato per tutto il tempo della triste separazione di ciò che potevo pagare da quel che non avrei potuto saldare a causa della mia distrazione. “Hai almeno altri venti centesimi oltre i venti euro?”.
Li avevo i venti centesimi e così ho raccolto la mia spesa dimezzata mentre lei destinava in un angolo, dov’era già un cumulo di prodotti restituiti per incapienza di altri miei compagni di spero breve sventura, l’altra metà di ciò che avrei voluto acquistare. Il lei convertito in tu appena è stata nota la mia incapacità a saldare ciò che avevo acquistato è però il segno doloroso di come la povertà produca, come effetto collaterale, una immediata diminuzione della reputazione. La conferma che la povertà, apparente o no, riduce immediatamente la dignità, e autorizza – consapevolmente o meno – questo improvviso ma triste declassamento sociale. La montagna di prodotti non pagati, che la cassiera – indicandomeli – aveva accatastato alle sue spalle (non oso pensare in quanto tempo) era l’angosciante documento visivo di questo nostro tempo.