Una cosca autonoma, collegata alla casa madre di Cutro ma profondamente diversa nella struttura e nell’agire. Una “mafia affarista, dove non è essenziale esser stati battezzati per diventare soggetti partecipi”; che si divide per competenza geografica il territorio, che costruisce affari con il permeabile tessuto economico locale e si appoggia a uomini infedeli delle Forze dell’Ordine. Che risponde platealmente alle indagini quando sente mancare la terra sotto i piedi, contrattaccando pubblicamente con i propri capi pronti a vestire i panni delle vittime.

È la ‘ndrangheta dell’Emilia Romagna, duramente colpita dal processo Aemilia; la mafia dei Sarcone/Lamanna/Diletto/Bolognino che emerge dalle motivazioni della sentenza d’Appello depositate in questi giorni dai giudici Pederiali, Passarini e Silvestrini. Un documento lungo 2583 pagine, a conclusione di un anno di udienze condotte nel 2020 mentre fuori dall’aula colpiva duro il Covid 19. Il 17 dicembre scorso la sentenza, con oltre 700 anni di carcere complessivi per i 120 imputati che avevano presentato ricorso.

Le motivazioni di oggi sostanzialmente confermano le ragioni delle pesanti condanne già inflitte nel primo grado di Reggio Emilia, senza fare sconti a volti noti che da quel processo erano usciti gridando all’ingiustizia e alla persecuzione. Augusto Bianchini, noto imprenditore edile modenese condannato a 9 anni per concorso esterno, è l’uomo che dal 2012 “con piena consapevolezza e volontà, introduce la ‘ndrangheta nei lavori pubblici del post terremoto. Lo fa per un interesse proprio… ma altrettanto consapevole che così agendo favorirà quel mondo imprenditoriale mafioso stanziatosi nella confinante provincia di Reggio Emilia. Conosceva perfettamente la caratura criminale dei suoi interlocutori… interessati agli orizzonti imprenditoriali che si potevano dischiudere”. Dopo la stagione delle estorsioni, dell’usura e degli incendi, dell’omertà e dell’assoggettamento degli imprenditori di origine cutrese, la cosca tenta “l’avvicinamento ed il coinvolgimento di personaggi gravitanti nel mondo della politica locale e degli organi di informazione, al fine di una maggior presentabilità dei soggetti di spicco del sodalizio con lo scopo ultimo di introdursi in ambienti economici e sociali che, in precedenza, apparivano immuni. Vanno in tal senso i tentativi… di trovare un accordo con il politico Giuseppe Pagliani”. Allora esponente di spicco di Forza Italia in consiglio comunale a Reggio Emilia.

La sentenza cita la cosiddetta “cena delle beffe”, organizzata presso il ristorante di uno degli imprenditori della cosca, Pasquale Brescia (13 anni di reclusione in Appello), “che vedeva come ospite d’onore il politico Pagliani e i sodali maggiormente rappresentativi dell’imprenditoria cutrese sul territorio emiliano”. Ma ricorda subito dopo “l’esistenza di non meno importanti, inossidabili e privilegiati rapporti, tra esponenti della cosca emiliana ed esponenti delle Forze dell’Ordine, in servizio sia in uffici emiliani, sia in uffici calabresi, che hanno dimostrato una vera e propria partecipazione agli scopi dell’associazione mafiosa mettendosi di fatto a sua disposizione”. Chi aveva rapporti privilegiati con poliziotti e carabinieri disponibili era, scrivono i giudici, Giuseppe Iaquinta, “risultato essere un soggetto con un ruolo fondamentale per il sodalizio, rappresentando la figura dell’imprenditore di successo, oltre che padre di un calciatore famoso”. Un suo tratto caratteristico è “la assidua partecipazione a veri e propri summit di mafia con i sodali”, che non mancavano di esprimergli “il proprio astio nei confronti dell’allenatore della Juventus, Antonio Conte, ogni qualvolta il figlio Vincenzo non veniva schierato in campo”.

Il tratto caratteristico della cosca era la capacità di generare soldi attraverso false fatturazioni, società cartiere, truffe fiscali. Conseguenza di queste attività era la raccolta di un mare di soldi che poi venivano monetizzati con un vorticoso giro di prelievi e depositi negli uffici postali lungo l’intera via Emilia da Piacenza a Rimini. Le motivazioni ricordano la imbarazzante deposizione di aula della dirigente di Posta Impresa di Reggio Emilia, Loretta Medici, che “aveva instaurato un rapporto privilegiato con Gianni Floro Vito” (13 anni e 1 mese di condanna) il quale le metteva a disposizione gratuitamente i servizi del proprio centro estetico. La monetizzazione dei ricavi frutto di attività illecite passava per gli sportelli postali e bancari generando “movimentazioni quotidiane di volumi di denaro impressionanti”. Frutto in particolare “della falsa fatturazione: un vero e proprio business criminale in grado di garantire alla cosca ingente accumulazione di ricchezza illecita derivante dagli artificiosi crediti Iva”. La falsa fatturazione “è divenuto il fondamentale strumento per il reimpiego del denaro messo a disposizioni degli affiliati e ha consentito al sodalizio di infiltrarsi nell’economia del territorio, soprattutto nei settori dell’edilizia e dell’autotrasporto, sbaragliando così l’imprenditoria locale”.

Dalle indagini di Aemilia è scaturito anche il processo che vede imputate 12 persone per “minacce a corpo politico, amministrativo e giudiziario dello Stato, e rivelazione di segreti d’ufficio”. Tra gli altri c’è l’ex senatore Carlo Giovanardi che negli anni dal 2013 al 2015, secondo l’accusa, cercò di aiutare la famiglia dell’imprenditore Bianchini ad ottenere la riammissione alla White List per le loro aziende escluse a causa dei rapporti con la ‘ndrangheta emiliana. Ai giudici del Tribunale di Modena (è caduta l’aggravante mafiosa) i difensori di Giovanardi hanno presentato martedì 15 giugno una eccezione per genericità dei capi di imputazione e la Corte si pronuncerà nella prossima udienza fissata per il 7 settembre. Ad oltre tre anni dalle richieste di rinvio a giudizio presentate dalla Direzione Antimafia di Bologna questo processo deve ancora entrare nel vivo, mentre in Aemilia le sentenze sono già in giudicato o in attesa della Cassazione. Ma in Aemilia non c’era nessun parlamentare imputato.

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