Oggi gli iraniani andranno al voto per eleggere l’ottavo presidente della Repubblica islamica dell’Iran, in una delle tornate elettorali più delicate sin dalla rivoluzione del 1979. L’economia iraniana non è forse mai stata in queste condizioni, la pandemia non è ancora terminata e dal punto di vista geopolitico si esce forse dai quattro anni più tesi nelle relazioni con gli Stati Uniti, caratterizzate da diversi momenti di alta tensione con l’ex presidente Donald Trump. Come di consueto, gli oltre cinquecento candidati alle presidenziali sono dovuti passare al vaglio del Consiglio dei Guardiani che ha squalificato gran parte di essi e ha ridotto la lista a sette personalità, poi divenute quattro a causa del ritiro “strategico” di altri tre candidati nei giorni scorsi.

Se come già accaduto in passato sono stati diversi i candidati riformisti e centristi esclusi dalla corsa, un elemento poco evidenziato è il mancato via libera a una serie di candidati dei Pasdaran (Irgc), come il generale ed ex ministro della Difesa, Hossein Dehgan o Parviz Fattah, ex ministro sotto Ahmadinejad e direttore della Fondazione degli oppressi e degli invalidi.

La difficile congiuntura economica aveva già alimentato sufficienti premesse per un’affluenza al voto che promette di essere molto più bassa del solito (quasi sempre oltre il 65%). La preferenza implicita dei circoli vicini alla Guida Suprema, Ali Khamenei, per il candidato conservatore Ebrahim Raisi ha poi finito per far apparire politicamente motivato il processo di selezione del Consiglio dei Guardiani: la lista dei candidati rimanenti, composta dallo stesso Raisi, dall’immarcescibile Mohsen Rezaei (alla quarta candidatura), da Amir-Hossein Ghazizadeh Hashemi e dall’ex governatore della Banca Centrale, Abdolnaser Hemmati, indica un favorito del campo conservatore, cioè proprio Raisi, anche in virtù del fatto che ci si attende una bassa partecipazione soprattutto dagli elettori riformisti, largamente delusi dal generale declino della propria corrente.

I due candidati in lizza: Raisi, l’uomo delle purghee del 1988, e il pragmatico Hemmati
Se a gran parte degli osservatori tutto sembra indicare una probabile vittoria di Ebrahim Raisi, i dibattiti televisivi dei giorni scorsi consigliano un margine di prudenza: sia per la storica imprevedibilità delle elezioni iraniane, nelle quali diverse volte hanno vinto dei candidati inattesi, che per l’inaspettato protagonismo di Abdolnaser Hemmati (e di sua moglie Sepideh Shabestari che a inizio giugno ha rilasciato un’intervista sulla tv di Stato, divenendo il giorno dopo trending topic sui social in lingua persiana).

Hemmati, classe 1956, appartiene alla seconda generazione dei khomeinisti della rivoluzione del 1979: diverse foto agli albori della Repubblica islamica lo ritraggono vicino all’ayatollah Khomeini e all’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, nel cui partito Kargozaran Sazandegi è entrato alla fine degli anni ’90. La sua vicinanza al defunto magnate iraniano, di area pragmatico-centrista, contribuisce a delineare il profilo di un candidato realista, pienamente organico al sistema ma nella pratica molto poco influenzato dall’ideologia rivoluzionaria. Un’impressione rafforzata dalle decisioni che Hemmati, titolare di un dottorato in economia, ha preso come governatore della Banca centrale. Quella di governatore è una posizione che era stato chiamato a ricoprire in modo repentino nel 2018, dopo due mesi da ambasciatore in Cina, all’indomani dell’annuncio di ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare. La valuta in caduta libera, rafforzata dalla reintroduzione di sanzioni, aveva spinto Hemmati a varare una serie di operazioni di ingegneria finanziaria.

Nel 2018 ha razionalizzato e trasformato il sistema integrato di cambio della Banca Centrale in una sorta di marketplace nel quale gli esportatori iraniani potevano impiegare i loro ricavi in valuta estera, trovando così il modo di attirarla verso il Paese in anni di forte carenza. Ancor più esplicativa del suo cauto pragmatismo, apprezzato in modo vagamente bipartisan, è la gestione della situazione di cinque banche insolventi legate ai Pasdaran, nelle quali lo stesso governo aveva delle partecipazioni. Hemmati ha mantenuto un riserbo permanente sulla questione, evitando imbarazzi all’Irgc e alle alte sfere della Repubblica islamica, ma allo stesso tempo decidendo una problematica fusione di cinque istituti nella Banca Sepah. Come ricorda l’analista Ali Dadpay, Hemmati tende ad evitare scontri interni all’establishment, preferendo di gran lunga la ricerca di mediazioni.

Le possibilità di Hemmati di diventare presidente sono in primis legate al suo profilo di economista in una congiuntura particolarmente complessa che ha già dimostrato di saper maneggiare. In secondo luogo, al suo basso profilo che nel migliore dei casi potrebbe attirare il voto sia di riformisti delusi che quello di conservatori pragmatici, o persino di principalisti che ben vedono una figura di burocrate alla guida di un Paese sotto sanzioni, che d’altra parte avrebbe un approccio più malleabile nei dossier internazionali, primo tra tutti quello nucleare. Hemmati, che in campagna elettorale ha spinto molto sulla minore interferenza dello Stato nell’economia e per una maggiore diplomazia “con l’oriente e l’occidente”, forte delle sue connessioni nei mercati finanziari asiatici, è chiaramente sfavorito a causa dell’assenza di una base elettorale solida, ma allo stesso tempo adatto a ricoprire un ruolo di compromesso.

Ebrahim Raisi, che una base elettorale nella città di Mashhad può vantarla, rimane il favorito. Noto in Occidente per aver supervisionato migliaia di condanne a morte nelle purghe del 1988 e capo del potere giudiziario dal 2019, Raisi è stato sconfitto da Rouhani alle ultime elezioni nelle quali, similmente alle prossime, promuoveva un “governo forte per il popolo”. La sua principale promessa elettorale riguarda la costruzione di 4 milioni di unità abitative per le fasce sociali più deboli. La sua elezione potrebbe anche essere un elemento di facilitazione nel sotterraneo processo di futura selezione del successore della Guida Suprema: anche Ali Khamenei, oggi 82enne e secondo alcune voci malato, passò dalla presidenza prima di essere eletto dall’Assemblea degli Esperti come successore di Khomeini nel 1989, peraltro proprio grazie all’attività di lobbying di Rafsanjani.

Il più grande nemico di Raisi rischia di essere proprio la ridondante solerzia del Consiglio dei Guardiani che se a un primo sguardo ha squalificato una serie di candidati proprio in funzione del rafforzamento di Raisi, dall’altra rischia di mandare un messaggio di segno opposto all’imprevedibile elettorato iraniano, che rimanda alla declinante credibilità del processo elettorale della Repubblica islamica. Si tratta di un aspetto da non sottovalutare perché la partecipazione al voto è stata sempre utilizzata dal regime per dimostrare la sua buona salute. Lo stesso Raisi ha lasciato intendere di non essere d’accordo con il grande numero di esclusioni, raccomandando più volte una “alta partecipazione” che a molti è parso un messaggio in codice allo stesso Consiglio, un appello implicito (e inascoltato) alla flessibilità.

Parafrasando le considerazioni dell’analista Nicola Pedde, è proprio la “terra bruciata” creata attorno alla figura di Raisi per farlo apparire come l’unico “approdo” elettorale fertile a poter potenzialmente tenere lontana la maggioranza di un elettorato raramente incline a candidati fortemente promossi dall’alto. Sia nel caso di una vittoria di Raisi che nel caso di quella di Hemmati, tuttavia, le prospettive del dossier nucleare sono meno dissimili di quanto sembrino: in entrambi i casi esiste la volontà potenziale di sfruttare una presidenza americana più dialogante e ricercare un nuovo accordo che fornisca maggiori garanzie. E in entrambi i casi il ruolo della presidenza e del governo stesso nei negoziati sarebbe più contenuto rispetto agli ultimi anni, nei quali è stato talvolta evidente, nonché attestato dalle note dichiarazioni di Zarif che sarebbero dovute rimanere private, il conflitto tra esecutivo in carica e l’Irgc, promotori di due linee di politica estera differenti.

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