Se ne è andato uno degli ultimi simboli di un calcio che non c’è più. Un calcio non gestito dai procuratori, ma da calciatori che sapevano gestire se stessi, senza intermediari, anche se trattare con Giampiero Boniperti non era cosa facile. Dopo la vittoria del Mondiale in Spagna nel 1982, Rossi, Tardelli e Gentile, forti del trionfo, chiesero un aumento d’ingaggio. A lui, che da calciatore come integrazione di un ingaggio in danaro, aveva chiesto una mucca gravida. Boniperti li mise tutti e tre fuori rosa: saltarono un’amichevole, poi tornarono a Canossa e si accontentarono di un lieve ritocco. Un calcio fatto di “bandiere”, di giocatori che alla maglia ci tenevano. E bandiera lo era stato anche lui, con la maglia bianconera, che aveva indossato prima in campo e poi dietro la scrivania di presidente.
Uomo all’antica, che costringeva i suoi calciatori a tagliarsi i capelli (non avrebbe ma sopportato un Gigi Meroni, né Meroni avrebbe sopportato lui) o li multava se avevano la cravatta fuori posto. “Una testa senza capelli è più leggera anche per il calcio. È giusto presentarsi in pubblico con un aspetto decente” diceva. La sua austerità sabauda, l’avarizia di parole lo rendevano una figura quasi misteriosa, un’entità superiore, che però tradiva tutta la sua umanità in quell’andarsene sempre dallo stadio alla fine del primo tempo. Non ce la faceva a reggere emotivamente tutta la partita. Si chiudeva in auto e la ascoltava alla radio.
Boniperti rappresentava un calcio in cui le rivalità erano accese come oggi (o forse di più), ma anche giocate su un piano meno nevrotico, in cui una battuta poteva anche stemperare la tensione. Come non ricordare le polemiche sul gol di Turone (1981), che consentì alla Juve di vincere il Campionato davanti alla Roma. Dino Viola, allora presidente della Roma, commentò l’accaduto con una frase semplice: “questione di centimetri”. Il geometra Boniperti fece spedire un righello a Viola, che lo rimandò al al mittente scrivendo: “Un righello è per geometri, io sono ingegnere. Serve più a lei che a me”.
Non appariva troppo simpatico e neppure voleva esserlo, non era “smart”. Sapeva di gestire una squadra antipatica a molti, ma anche amata da molti e il suo unico motto era: “Vincere non è importante: è la sola cosa che conti”.