Anni fa il rugby in Italia è arrivato a un passo dall’essere uno sport nazional-popolare. Era di moda seguirlo, o quantomeno fingere di farlo, nonostante la stragrande maggioranza dei tifosi nemmeno conoscesse le regole. Soprattutto, l’improvvisa passione dei non appassionati ha generato un entusiasmo un po’ cialtrone che si è concretizzato in una narrativa nella quale il rugby veniva dipinto come l’antitesi del calcio in tema di valori, spirito sportivo e fair play. C’erano ovviamente elementi di verità, ma il fumo generato dagli stereotipi era di gran lunga superiore. In questi ultimi anni il Galles sta vivendo la medesima situazione, con i ruoli però ribaltati: mentre il calcio viene beatificato, il rugby si trova sotto attacco. Non si tratta di una questione di campo e prestazioni, ma riguarda la cultura, l’atteggiamento e l’orgoglio nazionale di cui si fanno portatrici le rispettive nazionali.
La differenza principale è che, alla base dell’hype creato attorno al rugby italiano, non c’è stato alcun risultato sportivo degno di nota, se non l’ingresso nel Sei Nazioni; per contro il calcio gallese, con la semifinale di Euro 2016, ha centrato il miglior risultato nella storia sportiva del paese. Parole, queste ultime, pronunciate da una leggenda del rugby gallese quale Martyn Williams. “Credo che quanto fatto dai ragazzi di Chris Coleman”, ha dichiarato a talkSPORT, “abbia superato qualsiasi risultato mai ottenuto da una squadra gallese di rugby. Perché il rugby è un circolo chiuso. Quanti paesi al mondo lo praticano seriamente? Dodici? Quindici? Il calcio invece è uno sport globale, e il paese non si è mai sentito così protagonista sul panorama internazionale come all’Europeo in Francia”.
Il mito di un paese profondamente radicato nel rugby è stato messo in discussione da un documentario prodotto da Radio 4 e intitolato In Wales the Ball is Round, nel quale si rivendicava la centralità del calcio quale sport nazionale del paese. “Il rugby è come le miniere, le pecore e i cappelli a forma di narciso”, raccontava l’autore Elis James. “Sono simboli che identificano il nostro paese, ma questo non significa che non esistano altri elementi altrettanto importanti e diffusi a livello trasversale”. Se negli anni Settanta non esisteva villaggio privo di una squadra di rugby, mentre per il calcio bisognava rivolgersi ai paesi più popolosi nelle zone limitrofe, da tempo il pallone ha affiancato il rugby quale attività sportiva di base. “Ma soprattutto”, afferma l’ex nazionale Laura McAllister, “il calcio è vissuto con una quotidianità maggiore, mentre il rugby rimane più un fenomeno legato all’evento del momento. Arriva il Sei Nazioni e la gente si infiamma, ma poi si torna a parlare di calcio”.
A Euro 2016 le conferenze stampa del Galles erano parzialmente condotte in lingua gallese, idioma morbido ma totalmente incomprensibile dai non autoctoni. Un ulteriore legame con il cuore della nazione arrivò dalla visita della squadra alla tomba di Hedd Wyn, poeta gallese morto durante la Prima Guerra Mondiale nella battaglia di Passchendaele (chiamata anche terza battaglia di Ypres) e sepolto proprio nelle Fiandre Occidentali. Gesti simbolici che hanno sviluppato una narrativa tendente a mettere in contrapposizione calcio e rugby, dove il primo veniva percepito come portatore di una cultura moderna, vivace, nazionalista e anti-estabilishment, mentre quella del secondo era derubricata a residuo passatista, unionista e conservatrice. A sfavore del rugby giocavano il momento non particolarmente brillante della nazionale e lo scandalo che aveva coinvolto l’allora presidente della Federazione David Pickering relativamente all’utilizzo di strutture federali per eventi del Partito Laburista.
Come però accaduto in Italia, anche in Galles il luogo comune ha preso il sopravvento, specialmente riguardante la supposta mentalità unionista dell’ambiente del rugby rispetto a quello del calcio. Eppure entrambi i siti web delle federazioni contengono contenuti bilingue, così come lo sono anche i report annuali pubblicati dalle stesse. Le conferenze stampa della nazionale di rugby sono parzialmente condotte in gallese, proprio come quelle dei colleghi del pallone. I cori militari di tradizione britannica che si ascoltavano nel mondo della palla ovale prima dei match sono ormai scomparsi, mentre il patrocinio del principe William sulla Welsh Rugby Union viaggia sullo stesso binario di quello della Regina Elisabetta sulla Football Association of Wales. Così come hanno ricevuto l’OBE (Order of the British Empire) sia Warren Gatland che Chris Coleman, entrambi per i servigi resi al paese con le proprie nazionali. Anche a livello di tifo anti-inglese, se oggi la nazionale di Southgate è il principale bersaglio dei tifosi gallesi, non va dimenticato che negli anni bui molti locali esponevano la Union Jack durante Europei e Mondiali, e l’Inghilterra era la seconda squadra di numerosi Dragoni. Nel rugby questo non è mai accaduto.
Non c’è dubbio che attualmente in Galles il calcio goda di una freschezza maggiore rispetto al rugby. Un fermento favorito anche dalla redistribuzione delle risorse finanziarie ottenute dall’Europeo verso la base della piramide calcistica del paese. L’incremento del numero di iscritti in numerose scuole calcio rispecchia bene il “we’re hungrier than ever” pronunciato da Gareth Bale dopo l’exploit di Euro 2016. Rimane però forte l’impressione che tutto sia molto legato ai risultati. Per la semifinale del Mondiale 2011 di rugby in Nuova Zelanda, fuori dal Millennium Stadium alle 8 di mattina c’erano 61mila gallesi. I biglietti per vedere la nazionale di calcio oggi valgono oro, ma solo dieci anni fa per un match contro la Russia non si andò oltre i 15mila spettatori. “La verità”, ha scritto il giornalista Graham Thomas, “si trova nel mezzo. Sotto molti aspetti il calcio ha fornito lezioni utili al rugby, ma è altrettanto vero anche l’opposto. Alla fine, nessuno ci obbliga a scegliere per uno dei due”.