Le industrie europee dell’acciaio, della chimica e del cemento dovranno finalmente pagare un prezzo per le loro emissioni di Co2 nell’ambiente? E da quando? Probabilmente solo tra un decennio. La risposta definitiva arriverà il prossimo 14 luglio, quando la Commissione Ue presenterà il pacchetto sul clima mirato a raggiungere gli obiettivi concordati da Consiglio e Parlamento in nome del Green Deal: riduzione dei gas serra del 55% nel 2030 rispetto al livello del 1990 e neutralità climatica entro il 2050. Per arrivarci occorre che, oltre al settore dell’energia, contribuisca anche la manifattura. Che oggi al contrario riceve gratuitamente quasi tutte le quote di emissione di cui ha bisogno. Ma le lobby dei produttori, a partire da Eurofer che rappresenta la siderurgia, sono al lavoro per rimandare il più possibile l’addio alla deroga. Nonostante sia in arrivo una tassa sulle importazioni dai paesi extra Ue destinata ad azzerare lo svantaggio competitivo del produrre in Europa e la tentazione di delocalizzare. Le bozze e indiscrezioni che arrivano da Bruxelles in attesa dell’appuntamento di luglio non fanno ben sperare gli ambientalisti, che temono in un’altra occasione persa. Dall’audizione del commissario Paolo Gentiloni al Parlamento europeo, il 21 giugno, non sono arrivate buone notizie.
Un passo indietro. Le proposte dell’esecutivo comunitario sono molto attese perché su quei testi si misurerà l‘impegno concreto dei 27 a fare del Vecchio continente il primo “a emissioni zero”. È con questo obiettivo che lo scorso anno Valdis Dombrovskis, vice di Ursula von der Leyen, ha annunciato l’intenzione di riformare energicamente il sistema Eu Emissions Trading System (Ets), che dal 2005 fissa un tetto alla Co2 totale che può essere emessa e impone a chi lo fa di acquistare tante quote quante sono le tonnellate di Co2 che diffonde nell’atmosfera. Ancora oggi a pagare (quasi 14 miliardi nel 2019) sono quasi solo gli impianti di produzione di energia. Dombrovskis ha promesso l’eliminazione progressiva delle quote gratuite per l’industria in contemporanea con l’introduzione di una nuova tassa sui beni importati da Paesi con standard ambientali più permissivi. Il ragionamento era cristallino: se Bruxelles imporrà ai produttori cinesi e turchi che vendono in Ue di comprare quote corrispondenti alle emissioni “incorporate” nel loro acciaio o nei loro fertilizzanti, il prezzo di quei prodotti salirà. E da questo punto di vista le aziende europee potranno competere alla pari, senza subire la concorrenza sleale di chi non deve investire per contenere le emissioni. Quindi non dovrebbero più aver diritto a ricevere i diritti a inquinare a titolo gratuito. Del resto a impedirlo ci sono anche le norme dell’Organizzazione mondiale del commercio, che vietano la “doppia protezione”.
La sola ipotesi ha però fatto salire sulle barricate sia le lobby dei produttori di acciaio, alluminio, cemento e prodotti chimici sia i partner commerciali della Ue le cui esportazioni saranno soggette alla nuova tassa. Anche perché negli ultimi mesi il prezzo delle quote di Co2, a cui sarebbe parametrata anche la “carbon tax alla frontiera”, ha raggiunto livelli mai toccati prima avvicinandosi ai 52 euro a tonnellata contro i 20 di un anno fa. Brasile, Cina, India e Sudafrica, in una dichiarazione congiunta firmata all’inizio di aprile durante un vertice sul cambiamento climatico, hanno espresso “grave preoccupazione” riguardo alla proposta di “barriere commerciali come una tassa sul carbonio alla frontiera, che sono discriminatorie e contrarie ai principi di equità“. Mentre la European Steel Association (Eurofer) ha scritto alla Commissione per perorare la causa della siderurgia europea, chiedendo che le quote gratuite non siano eliminate troppo in fretta quando sarà introdotta la nuova tassa. “Questo esporrebbe i produttori e i settori a valle al pieno costo del carbonio, minando la capacità di investire in tecnologie a basse emissioni”, depreca Eurofer nella lettera di cui ha dato conto il Financial Times. La lamentazione aveva già trovato ottima accoglienza da parte del Parlamento europeo, che in aprile – con una maggioranza guidata da Ppe, Conservatori e riformisti e sovranisti di Identità e democrazia – ha votato contro l’eliminazione “rapida e definitiva” delle quote gratuite in parallelo con l’avvio della carbon tax.
Poco dopo a Bruxelles hanno iniziato a circolare le bozze del regolamento sul “Carbon border adjustment mechanism” che l’esecutivo Ue presenterà a luglio. Leggendole salta all’occhio che, per quanto il nuovo dazio ambientale su acciaio, alluminio, cemento, energia e fertilizzanti sia definito “alternativo” alle quote gratis, da nessuna parte si dice quando i produttori europei dovranno iniziare a pagarle. Anzi: l’articolo 37 specifica che il costo per gli importatori potrà essere ridotto “per tener conto della misura in cui le quote Ets sono distribuite gratis”. Vero è che lo stop alla deroga per i grandi inquinatori potrebbe essere dettagliato nel provvedimento ad hoc sul sistema Eu Ets, che dovrebbe comprendere anche maggiori obblighi per le compagnie aeree e il settore marittimo. Ma secondo il Ft la Commissione non intende affrettarsi: l’eliminazione sarà fissata al 2030 (come già previsto dalle norme attuali) o 2035, a seconda di quando la tassa alla frontiera andrà a regime. Un orientamento confermato da Gentiloni, che agli europarlamentari ha confermato come le quote gratuita “verranno abbandonate gradualmente dal 2030 in poi”. Ma anche altri aspetti suscitano interrogativi: tra calcolo delle emissioni “incorporate” nei beni e eventuali compensazioni per i produttori stranieri che dimostrino di aver già pagato un “balzello sul carbonio” nel paese di origine, il sistema appare così complicato da far dubitare della sua applicabilità.
Proprio per questo Matteo Leonardi, esperto di politiche e mercati energetici e fondatore del think tank sul cambiamento climatico Ecco, consiglia cautela: “Continuare a dare quote gratis mentre si impongono dazi ai partner commerciali è senza dubbio improponibile, ma bisogna vedere se a questa “tassa alla frontiera” ci arriveremo davvero. Il meccanismo è molto complesso e di difficile applicazione: un importatore dovrà pagare solo perché produce in un Paese extra Ue o si terrà conto delle caratteristiche del suo stabilimento? Le regole del Wto richiedono di valutare caso per caso, ma chi farà queste valutazioni? E davvero potremo pretendere che i Paesi in via di sviluppo paghino per importare? La mia impressione è che sia più che altro un modo per mettere in agenda il problema multilaterale delle politiche per il clima. Da lì poi partiranno dei negoziati ed è possibile che alla fine si opti per meccanismi diversi”. Insomma: la proposta europea potrebbe rivelarsi solo una minaccia da agitare per poi lasciar fare alla diplomazia. Che potrebbe individuare strade alternative come “un intervento sulla fiscalità, cioè una tassa sulla Co2 intrinseca nei prodotti da applicare sia ai produttori europei sia a quelli extra Ue”.
Allo stesso modo, continua Leonardi, non è detto che per tenere sotto controllo le emissioni del settore dei trasporti e dell’edilizia residenziale sia opportuno includerli nell’Ets. “Dal mio punto di vista è più opportuno intervenire con un sostegno pubblico sotto forma di incentivi e sussidi, mentre si eliminano quelli al fossile. Al contrario di un’impresa, un individuo difficilmente può sostenere un sistema di mercato della Co2″. La prospettiva impensierisce anche Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione responsabile del Green Deal, che ha detto di temere ricadute sociali in termini – per esempio – di aumento del costo dei carburanti. E ha per questo proposto, nel caso si scelga questa strada, di creare in parallelo un Climate action social fund per compensare i cittadini più vulnerabili. Tutt’altro discorso dal lato delle imprese: con la ripresa post Covid che gonfia i conti dei grandi produttori di acciaio e cemento, i margini per pagare le tonnellate di gas a effetto serra immesse in atmosfera non mancano.