Da molto tempo continuo a pensare quali saranno gli effetti dei cambiamenti futuri sulle libere professioni e, soprattutto, su quella forense.

Recentemente ho letto una frase di Stephen Mayson, che mi ha colpito: “Il miglior modo per gli avvocati di prepararsi al futuro è quello di smettere di pensare di essere avvocati…”, come a dire che solo abbandonando il modo tradizionale di vedere la professione si possono affrontare le sfide del futuro, legate alla diffusione delle tecnologie e ad una modificata richiesta da parte del mercato. Secondo un recentissimo studio della Law Society, il mercato delle professioni legali vedrà un significativo decremento dell’occupazione, poiché sostituito da intelligenza artificiale o da soggetti che non hanno formazione legale ma estrazione legata, ad esempio, all’informatica, al project-management o alla data analysis.

Dobbiamo, quindi, fare tesoro di quanto abbiamo imparato durante l’ultimo anno; abbiamo, infatti, scoperto che molte attività (ad esempio, quelle giudiziarie) possono essere gestite in modo più efficiente, con gli strumenti di connessione da remoto, evitando così spostamenti ed attese. Così, anche per gli appuntamenti e la gestione dell’attività, che possono essere svolti in luoghi diversi dagli uffici, senza più avere bisogno di uffici spaziosi e dotati di ampie sale riunioni in centro città.

Emerge, quindi, con chiarezza come alcuni stereotipi delle libere professioni siano superati e come si debba riflettere seriamente sul futuro, grazie alle esperienze maturate durante il periodo della pandemia. Ad esempio, un must delle libere professioni (che è quasi uno status symbol) è il poter vantare un’ampia sede in una via prestigiosa e dotata di grandi sale riunioni, cosa che oggi appare completamente inutile, vista la possibilità di gestire l’attività tramite strumenti informatici o recandoci direttamente dal cliente, così da avere un diretto contatto con la realtà aziendale o personale.

Altra scelta che fino ad oggi ha contraddistinto il libero professionista era quella di sentirsi protetto sotto lo scudo di una sigla di fama, così da assecondare quell’idea che chi fa parte di quella data struttura sia automaticamente competente. Anche in questo caso, si tratta di una scelta che dimostra tutti i suoi limiti dopo la pandemia, durante la quale abbiamo capito che il fulcro della relazione con il cliente sia di carattere personale e non basata sull’appartenenza a questa o a quella struttura. Il cliente chiama direttamente il professionista che conosce e stima, quello con cui si trova bene a ragionare (secondo il principio del “chi si somiglia si piglia”) per avere supporto nell’affrontare le continue novità che si propongono giorno per giorno. La pandemia da questo punto di vista è stata una grande occasione, perché il singolo professionista facesse emergere, accanto alle competenze tecniche, anche le sue capacità di problem solving e di supporto psicologico al cliente.

Insomma, è emersa quella che è una caratteristica tipica del libero professionista, cioè quella di essere un “lupo solitario” e non un “animale da branco”. Ognuno di noi, infatti, è convinto di essere unico e, salvo per materie iper-specialistiche, di gestire meglio di chiunque altro quella data pratica: così questa viene normalmente gestita direttamente dal singolo professionista tramite il proprio team, cercando di non condividere nulla con professionisti esterni (anche se condomini), sia per la mancanza di volontà di confronto professionale con altri (che potrebbero risultare più bravi di noi), sia per problemi economici (la divisione dei compensi con altri, che non fanno parte del nostro team).

La difficoltà nella collaborazione deriva da una specie di codice iscritto nel nostro dna, legato alla caratteristica e che è in chiara contraddizione con la ricerca di una casa in comune con altri. Questa spesso si risolve in un piccolo condominio, dove l’unica cosa che accomuna tutti i condomini non è la divisione del lavoro, ma sono un biglietto ed un logo, dietro cui cerchiamo di mascherare le nostre piccole insicurezze personali.

In realtà, si deve prendere atto che ciò che conta, soprattutto quando si devono affrontare problematiche tecniche (legali, sanitarie, fiscali, ecc..), è la relazione personale. Normalmente, il cliente scegli il professionista perché lo conosce o perché qualcun altro di cui si fida glielo consiglia; poi procede con il fact-checking, per verificare che sia una persona credibile e professionalmente valida. Nessuno di noi, quando affronta tematiche tecniche, è infatti in grado di capire fino in fondo le competenze del professionista scelto: si deve fidare di ciò che gli è stato raccontato e di ciò che trova sull’io digitale della persona.

E’ come se ci trovassimo di fronte ad un neo-umanesimo, per cui, parafrasando Protagora, “di tutte le relazioni professionali misura è l’uomo”: al centro del rapporto tra cliente e professionista (inteso come somma del team) devono essere poste le loro persone. Tutto il resto è apparenza inutile, che non costituisce alcun vantaggio per il cliente, che è interessato non a quanto sia bella la sala riunioni del professionista scelto, ma quanto lui sia bravo nel supportarlo, grazie alle competenze sue e del suo team.

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