di Salvatore Borsellino, Paola Caccia, Angela Gentile Manca, Stefano Mormile
Due settimane fa ogni quotidiano e telegiornale ha inserito tra le prime notizie la scarcerazione del boss mafioso, poi collaboratore di giustizia, Giovanni Brusca. Il suo viso e il suo nome erano ovunque sui media e sui social network e tutti hanno potuto conoscere gli orrori del suo passato, l’arresto e la scelta di collaborare con i magistrati. Abbiamo ascoltato personaggi più o meno famosi dare il loro giudizio su quella scarcerazione (avvenuta non per errori della giustizia ma in base ad una legge voluta da Giovanni Falcone, che fu il primo a comprendere come fosse necessario che la legge sui “pentiti”, dopo essere stata creata per i terroristi neri e rossi, si allargasse ai mafiosi) e abbiamo visto alcuni di loro stracciarsi le vesti per il ritorno in libertà (vigilata) di un ex mafioso che, con la sua collaborazione, ha fatto condannare centinaia di altri mafiosi.
Non abbiamo visto, al contrario, un dito alzato, un leggero sussurro contrario, una flebile obiezione, proprio nulla, quando ad essere stato scarcerato, nel dicembre 2015, fu Rosario Pio Cattafi, già condannato in primo e secondo grado per associazione mafiosa e però passato dal regime carcerario del 41-bis alla libertà senza alcuna forma di restrizione. E lo stesso completo silenzio ha coperto, per più di quattro anni, una vicenda che abbiamo già avuto modo di definire “indecente per uno Stato di diritto”.
Oggi siamo noi familiari delle vittime di mafia a doverci caricare sulle spalle, come quasi sempre accade in questo Paese nel caso di uomini di potere, l’onere della denuncia di mafia. Questa volta sul caso di Rosario Pio Cattafi, un personaggio che è entrato nelle indagini sull’omicidio del Procuratore di Torino Bruno Caccia, sull’omicidio del medico Attilio Manca, sul famoso autoparco di Via Salomone a Milano (una delle basi operative di un “consorzio” mafioso di cui faceva parte anche la “famiglia” che ordinò l’uccisione dell’integerrimo educatore carcerario Umberto Mormile) e nell’indagine della Procura di Palermo sui cosiddetti “Sistemi Criminali”, che avevano ritenuto necessaria – e non prorogabile – la strage di Via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e i suoi cinque agenti di scorta.
Il caso in questione, appunto, è il processo per associazione mafiosa a carico di Rosario Cattafi. Sono quarant’anni che quest’ultimo entra ed esce da indagini per mafia. Nel 2013, finalmente, grazie al lavoro dei Pubblici ministeri di Messina Angelo Cavallo e Vito Di Giorgio, è arrivata la sentenza di condanna in primo grado per Cattafi, che viene riconosciuto colpevole per associazione mafiosa. Dopo la conferma nel processo di appello, la Corte di Cassazione, il 1° marzo del 2017, ha ritenuto Rosario Cattafi partecipe all’associazione mafiosa della cosca di Barcellona Pozzo di Gotto (provincia di Messina) fino al 1993, rinviando alla Corte d’Appello di Reggio Calabria il giudizio per gli anni compresi tra il 1993 e il 2000 e assolvendolo per gli anni tra il 2000 e il 2012.
Ebbene, dopo più di quattro anni, il reato di associazione mafiosa a carico di Rosario Cattafi, già pluripregiudicato (per i reati di lesioni, porto e detenzione abusivi di arma da fuoco e calunnia) e plurindagato per altri innumerevoli reati (come sequestro di persona, omicidio, traffico di stupefacenti, traffico internazionale di armamenti, strage, associazione con finalità di terrorismo o di eversione – indagini da cui Cattafi è sempre uscito indenne, o per archiviazione o perché prosciolto o assolto), potrebbe essere prescritto.
La Corte di Appello di Reggio Calabria, infatti, ha impiegato più di due anni per fissare la prima udienza del processo a carico di Cattafi, nonostante il reato (di associazione mafiosa!) fosse a rischio di prescrizione. Ma, come se non bastasse, la prima udienza, che si sarebbe dovuta tenere il 17 aprile 2019, è stata rinviata per ben tre volte per difetti di notifica vari. L’udienza successiva, finalmente fissata per il 4 novembre 2020, dopo la sospensione dei processi a causa della pandemia di Covid-19, ancora una volta non si è tenuta, a causa dell’assenza di un giudice. Quindi l’ulteriore rinvio al 20 gennaio 2021, quando la Corte d’Appello ha rinviato nuovamente la sentenza al 31 marzo 2021, per poi, incredibilmente, rinviarla ancora una volta, al 23 giugno prossimo. Sono passati quattro anni, tre mesi e tre settimane da quando la Cassazione ha rinviato il giudizio per Rosario Cattafi.
Nel frattempo, il Procuratore generale di Reggio Calabria, Giuseppe Adornato (ex assessore all’urbanistica proprio del Comune di Reggio Calabria, dal 2002 al 2007, quando la giunta reggina era guidata dal sindaco Giuseppe Scopelliti, che sarà poi condannato definitivamente nel 2018 a quattro anni e sette mesi di carcere per falso in atto pubblico), ha chiesto alla Corte di appello di far decadere il reato di associazione mafiosa a carico di Cattafi per intervenuta prescrizione.
Se la prescrizione fosse confermata dalla Corte, cadrebbe anche il cosiddetto “giudicato interno” della Cassazione, che aveva riconosciuto Cattafi intraneo all’associazione mafiosa fino al 1993. Esattamente come fu per Giulio Andreotti, il reato sarebbe ravvisato ma prescritto.
Non possiamo fare altro che auspicare che la Corte di Appello di Reggio Calabria rigetti la richiesta della Procura generale e decida di riaprire il dibattimento per accertare la continuata intraneità all’associazione mafiosa di Rosario Pio Cattafi fino al 2000, anche alla luce delle nuove prove (emerse dopo la sentenza di secondo grado) portate all’attenzione dei giudici. E che qualcuno mostri almeno un decimo dello sconcerto e dello sdegno dimostrati dopo la scarcerazione di un “pentito” come Giovanni Brusca anche per la vicenda di Rosario Pio Cattafi, il quale, certamente, non ha mai avuto la benché minima intenzione di collaborare con la giustizia.
Un appello infine alla ministra Marta Cartabia, assai sensibile alla “ragionevole durata del processo”. Ebbene, nel caso che segnaliamo non serve aspettare l’avvio di prodigiose riforme per abbattere finalmente i tempi della Giustizia; due anni per fissare una semplice udienza e quattro anni per celebrarla non sembra un problema di procedure o di organizzazione, piuttosto di “priorità capovolte”.
Ps. Per chi avesse voglia di approfondire l’argomento e saperne di più su alcune delle vicende richiamate che riguardano Rosario Cattafi, è disponibile un dossier a questo link.