Dopo ambiente, salute e lavoro, l’ex Ilva di Taranto rischia ora di dividere i tarantini anche sul calcio. L’ipotesi di una sponsorizzazione alla squadra di calcio neo promossa in Serie C sta infatti diventando – ovviamente – una questione non solo sportiva ed economica, ma sociale e per alcuni, una scelta etica. C’è chi sostiene che quei soldi siano sporchi del sangue di operai e di gente ammalata a causa dell’inquinamento, mentre per altri è parte del risarcimento che la città merita e del riscatto a cui ha diritto. Anche nel calcio. A pochi giorni dalla promozione in Serie C, inoltre, i tifosi ionici hanno preso coscienza che il prossimo campionato sarà particolarmente impegnativo: Palermo, Avellino, Foggia, ma soprattutto Bari. I baresi sono gli storici avversari dei rossoblu: le due squadre pugliesi non si incontravano in campionato da quasi 30 anni, dal fallimento del Taranto del 1993 che fece sprofondare il calcio ionico dalla Serie B ai dilettanti. Da allora, nonostante una tifoseria di primo livello, il calcio ionico ha vissuto tra alti e bassi nei gironi infernali dei campi di provincia sparsi nel Sud Italia. Ed è quindi anche per questo che il ritorno nel calcio professionistico conquistato domenica 13 luglio ha galvanizzato i tarantini spingendoli a festeggiare nelle piazze e nelle strade: un pomeriggio di grandi caroselli, non troppo distante dai festeggiamenti nelle grandi città per la vittoria dello scudetto. Perché qui, in riva allo Ionio, la “fame di calcio” è allo stesso tempo un’isteria collettiva e una panacea. “Il Taranto” non solo abbatte le differenze socioeconomiche visibili da un angolo all’altro del centro cittadino, ma è in grado di cancellare per qualche ora i dolori e le sofferenze di una terra e di una comunità sfregiata a morte da anni di immensi sacrifici. Da qualche settimana, però, anche il Taranto Football Club non è solo calcio e sport. Già prima della fine dell’ultima stagione le chiacchierate sul calcio ionico hanno sconfinato in campi apparentemente distanti anni luce dallo sport: salute, acciaio, diritti.
Da qualche tempo infatti, l’ad di Arcelor Mittal Italia Lucia Morselli ha pubblicamente mostrato il suo interesse per le sorti della società calcistica attraverso la sua presenza sugli spalti, le cene con alcuni dirigenti, lo striscione esposto nelle ultime gare di campionato nello stadio Erasmo Iacovone. La Morselli sa bene il valore che quell’investimento minimo potrebbe avere in termini di gradimento a Taranto. Perché i tarantini da sempre sperano di tornare in Serie B o, addirittura, sognano il primo campionato di Serie A della loro storia, ma per sperare e sognare servono i soldi. E un magnate disposto a investire nel calcio, nella terra dell’eterno nodo salute-lavoro, non c’è. Morselli sa anche questo. E soprattutto sa che non puntare sul calcio è considerato a Taranto il grande errore di Emilio Riva, ex patron del gruppo lombardo scomparso nell’aprile 2014 che ha guidato lo stabilimento siderurgico fino al 2012. “Se Riva avesse comprato il Taranto, i tarantini avrebbero manifestato contro i giudici” è uno degli adagi che a Taranto tutti ripetono, ma mai pubblicamente.
Ora che l’ipotesi di un intervento economico dei nuovi padroni dell’acciaio nel calcio locale sta prendendo piede, la città si spacca. L’ex Ilva potrebbe diventare davvero lo sponsor del Taranto, forse scalzando persino la “Birra Raffo”, uno dei grotteschi simboli di appartenenza al territorio. Una parte della tifoseria rossoblu ha già espresso chiaramente il proprio dissenso: pochi giorni dopo la comparsa dello striscione di “Acciaierie d’Italia” in gradinata, qualcuno lo ha fatto sparire. È riapparso in una foto sui social con un messaggio eloquente: “Accettiamo provocazioni, non compromessi. Per Taranto, per il Taranto”. Ma non è l’unico messaggio che circola tra gli ultras ionici: “Taranto prima del Taranto” ripetono in tanti a significare che non intendono svendere la propria terra per il successo calcistico. Dei soldi dell’acciaio, insomma, una parte della tifoseria non vuole saperne. Ma non solo i tifosi. Anche le associazioni ambientaliste e i comitati sono contrari. Il loro no è racchiuso anche nelle parole di Michele Riondino, l’attore tarantino da sempre in lotta contro i veleni della fabbrica: dalle colonne della Gazzetta dello Sport, Riondino ha lanciato un appello al presidente del Taranto Massimo Giove per chiedergli di rifiutare quel denaro, evitando che i padroni dell’acciaio “possano prendersi l’immagine pulita della città. A Giove dico – ha aggiunto l’attore – che con tanti altri tifosi siamo pronti a far nascere un azionariato popolare. Diventiamo un piccolo Barcellona e andiamo in A, ma non con loro”.
A qualche settimana dalla sentenza che ha condannato i Riva per il disastro ambientale, però, ha preso la parola Vittorio Galigani, dirigente del Taranto FC con un passato burrascoso in altre esperienze calcistiche come Foggia o L’Aquila. Intervistato dall’emittente locale Radio Cittadella, sull’ipotesi di partnership con la fabbrica, Galigani ha detto: “Mai ipotecare il futuro. C’è un rapporto empatico con la dottoressa Morselli. Hanno acquistato uno spazio pubblicitario e noi siamo stati contenti di poter esaudire questa richiesta, ma di concreto per il futuro non c’è ancora nulla. E se ci fosse interesse, perché no? Soprattutto considerando che ad altre gestioni del passato, di cui facevo parte, il siderurgico dette un contributo. Non ipotechiamo il futuro. Ripercussioni negative dalla sponsorizzazione di Acciaierie d’Italia? In questo momento, sinceramente, preferisco godermi la festa”. Anche l’onorevole leghista Gianfranco Chiarelli, da qualche mese commissario della Camera di Commercio di Taranto, pur fissando i paletti sugli obblighi dell’impresa verso i tarantini, non è contrario a questa ipotesi. Interpellato da ilfattoquotidiano.it, Chiarelli ha spiegato che “in base alla mia esperienza, peraltro pertinente al tema (Chiarelli è stato per anni presidente del Martina calcio, anche in Serie C, ndr), trovo abbastanza usuale che una grande impresa sponsorizzi una squadra di calcio. Bene sarebbe, anzi, che il sostegno si estendesse pure ad altre attività sportive che stanno portando rilievo nazionale ed internazionale a Taranto, come il volley o il nuoto, ma anche alle società sportive minori che possono essere incubatori di futuri campioni e campionesse. Certo – ha precisato il commissario della Camera di commercio – parlando nella fattispecie, nulla esonera l’Azienda degli impegni assunti, insieme allo Stato, nei confronti della nostra comunità”.
Anche la posizione di Rinaldo Melucci, sindaco di Taranto che guida la battaglia per la chiusura dell’area a caldo, non è affatto distante da quella di Chiarelli: “Quando incontrai i Mittal nel 2017 – ha spiegato il primo cittadino al Fatto – chiesi loro di rispettare e sposare una comunità ferita, anche attraverso opere di responsabilità sociale e di sostegno allo sport e alla gioventù locali. Allora non solo non fui ascoltato, ma mi fu detto che non rientrava nella loro policy. Magari la situazione è cambiata, anche per effetto dell’ingresso dello Stato. Ma queste cose devono avvenire con impegni importanti e non di facciata, devono coinvolgere in trasparenza la comunità e i tifosi, e soprattutto non possono certo sostituire il ruolo che l’azienda deve recuperare nei confronti della salute dei tarantini e quindi della radicale trasformazione dello stabilimento siderurgico, a cominciare dalla chiusura dell’area a caldo che tutti chiediamo. Resta – ha infine aggiunto Melucci – ovviamente una relazione tra privati, nella quale il mio giudizio forse è relativo, ma sono sicuro che, come ha sempre dimostrato, il presidente Massimo Giove saprà avere la giusta sensibilità per gestire questa nuova situazione”. Il numero uno della società calcistica, però, al momento resta in silenzio. La società, contattata dalla nostra redazione, non ha voluto rilasciare dichiarazioni sull’argomento. Giove, tuttavia, il siderurgico lo conosce bene. Guida una delle imprese dell’indotto dell’acciaieria che in questi anni ha combattuto contro ArcelorMittal per ottenere il pagamento di milioni di euro di fatture scadute.
Non solo. A quei momenti di difficoltà si è aggiunto un sequestro ai suoi danni da 4 milioni di euro per l’ipotesi di false fatturazioni: a luglio 2020 i finanzieri hanno bloccato anche il 90 percento delle quote societarie del Taranto impedendo l’utilizzo effettivo di quelle risorse, ma non le operazioni di calcio mercato che hanno poi portato alla vittoriosa stagione appena conclusa. Forse anche Giove e i dipendenti della sua azienda parteciperanno al sit in organizzato da Confindustria Taranto per il prossimo 22 giugno: per chiedere al Governo “un piano alternativo che possa restituire loro garanzie per il prosieguo delle loro attività”. Una prova di forza in attesa della sentenza del Consiglio di Stato che potrebbe confermare la chiusura dell’area a caldo, ritenuta ancora – a distanza di 9 anni dal suo primo sequestro –fonte di pericolo per la salute dei tarantini. Per gli industriali, soprattutto, non si può “cancellare con un colpo di spugna uno stabilimento che rappresenta la storia della città, che caratterizza fortemente da 60anni il tessuto economico-produttivo di Taranto e della sua provincia e che ha distribuito ricchezza per almeno tre generazioni”. Un’idea che in realtà serpeggia tra buona parte dei tarantini, terrorizzati dall’idea di un’alternativa occupazionale. Il futuro della città e l’ipotesi di una nuova strada diversa dalla monocultura dell’acciaio passa infatti proprio dalla capacità di generare nuove e differenti occasioni per Taranto e i suoi abitanti. E se lasciare la strada vecchia è una scelta già difficile di per sé, appare altamente improbabile che si realizzi quando, col denaro, si tenta di comprare tutto. Il lavoro, i diritti, l’ambiente, la salute e i sogni di una città che intimamente spera in un futuro diverso. Anche nel calcio.