L'ultimo spettacolo del drammaturgo e attore Pietro Babina è incentrato sulla "solastalgia", la sensazione angosciante di non riuscire a controllare le trasformazioni dell'ambiente in cui si vive. In scena all'Arena del Sole di Bologna
Solastalgia. L’ambiente domestico/naturale in cui si vive sta cambiando e questa trasformazione su di sé provoca un’angoscia incontrollabile. Non ci fossero Pietro Babina e il suo Alla Voragine (in scena all’Arena del Sole di Bologna, produzione Emilia Romagna Teatri) saremmo tutti più soli basculando inquieti dentro a quel senso di inadeguatezza di fronte all’esistenza che scorre imperturbabile, dissennato, inaccettabile. Ragionare e pulsare di questo sentimento antico, drammaturgicamente perfino piuttosto classicheggiante, è una condizione dell’essere intima e individuale che l’autore bolognese declina in una universalità da prossimo futuro vagamente distopico, pioggia perenne e battente sul tetto e sulle pareti di un appartamento/scena visivamente essenziale e lontanamente funzionalista (i cassettoni che si aprono sotto al pavimento). Una poltrona non proprio al centro del palco, non proprio perpendicolare alla platea e una cuffia “del silenzio” appesa ad un bracciolo.
Poi accade che Engel si allontani da casa e che avvenga l’irreparabile. L’uomo quasi muore dal dolore, abbandona la casa per un po’, vi tornerà quando anche un’altra donna, Zea (sempre la Balducci), fingerà di suonare a quel campanello per chissà quale lavoro. Di nuovo un possibile involontario appiglio per rimanere dentro al mondo (quel nodo scorsoio preparato in scena è da brividi) attraversando la propria ira incontrollabile, di nuovo un sentimento amoroso, infine l’angoscia di quella “voragine” che richiama a sé, misteriosamente, ipnoticamente, barbaramente, l’uomo. L’attore Babina in scena dondola, caracolla, si piega, si china, si aggrappa ai bordi del palco, urla, impreca, bestemmia, veste scarponi pesantissimi che lo attraggono più o meno simbolicamente verso il pavimento. E tra un’attesa beckettiana alla parete/finestra con Zea, il suo corpo prova a resistere, ma la sua anima è già morta. Il drammaturgo Babina è insistente, spinge, stantuffa il senso universale di un io bernhardiano, mentre il finale (di partita) incalza inesorabile, ellissi narrativa, fisica, terra alla terra, polvere alla polvere, animale tra animali.
Il Babina regista che mette in scena, che costruisce lo spazio, che sottolinea il passare rapidissimo di un ampio lasso di tempo con una soluzione stroboscopica di luce, che estetizza il ricordo, il dolore, la fine, è sublime e delicato, onesto e fragile, in questo suo inattuale e fallimentare tentativo di intravedere una resistenza politica, culturale, intellettuale nello scorrere incolore del presente verso un futuro inimmaginabile grazie all’intrusione di elementi del passato (si diceva della carta e della penna, ma anche dell’apparizione evocativa di un “mangianastri” e delle note di Aguas de Março con Tom Jobim e Elis Regina). Infine il Babina artista/intellettuale, invischiato fino al collo in un gesto di resistenza, letteralmente a nudo nel mostrare la propria incertezza di uomo, inerme di fronte al fuoco della lotta che si accende e si spegne, di fronte a quella “voragine” da cui siamo entrati nel mondo dei viventi, senza sapere perché, e da cui ne usciremo, senza poterci fare nulla.