Obi Emeka e Gianluca Di Nardo, accusati di corruzione internazionale. erano stati condannati in primo grado in abbreviato a 4 anni. Ora l'assoluzione "perché il fatto non sussiste", la stessa formula della sentenza di marzo che ha fatto cadere l’ipotesi accusatoria della maxi tangente da oltre 1 miliardo
La Corte d’Appello di Milano ha assolto “perché il fatto non sussiste” i due presunti mediatori accusati di corruzione internazionale nel caso Eni-Shell/Nigeria, Obi Emeka e Gianluca Di Nardo, che erano stati condannati in primo grado in abbreviato a 4 anni. Revocate le confische, decise in primo grado, di 98 milioni e 400 mila dollari per Emeka e 21 milioni e 185 mila franchi svizzeri per Di Nardo per un totale di 112 milioni di euro. A marzo il tribunale di Milano aveva assolto tutti gli imputati nel processo per la presunta corruzione internazionale legata all’acquisizione da parte di Eni e Shell dei diritti di esplorazione del blocco petrolifero Opl 245 in Nigeria. L’imputato principale era Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni, a giudizio insieme al suo predecessore nonché attuale presidente del Milan, Paolo Scaroni.
Il processo d’appello, con rito abbreviato, ai due presunti mediatori riguardava la sospetta tangente da un miliardo e 92 milioni di dollari che secondo l’accusa sarebbe stata versata da Eni a politici della Nigeria, e tra le ipotesi anche a ex manager del colosso energetico, per l’acquisizione del giacimento. Lo scorso 22 marzo il pg Celestina Gravina aveva chiesto l’assoluzione “perché il fatto non sussiste”. Le motivazioni saranno rese note tra 90 giorni.
I giudici della seconda sezione d’Appello (presidente Rosa Luisa Polizzi coi giudici Scalise e Nunnari) non hanno fatto nessun cenno nella lettura del dispositivo sulle dichiarazioni di Vincenzo Armanna, ex manager di Eni, rispetto alle quali la procura generale aveva chiesto la trasmissione degli atti alla procura competente per valutarne l’attendibilità. Il pg Gravina nella requisitoria dello scorso marzo aveva definito Armanna, le cui dichiarazioni sono l’asse portante dell’inchiesta, un “avvelenatore di pozzi”. La corte però non ha ritenuto necessario la trasmissione degli atti.
Sulla gestione dell’inchiesta Eni-Nigeria, che si intreccia col fascicolo sul ‘falso complotto’ e col caso dei verbali di Piero Amara, indaga la Procura di Brescia e anche il Csm sta facendo accertamenti. Il pm Paolo Storari, indagato a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio per la consegna dei verbali sulla loggia Ungheria a Davigo, ha riferito ai pm bresciani di una precisa linea da parte dei vertici della Procura che prevedeva di ‘salvaguardare’ Amara da possibili indagini per calunnia, perché sarebbe tornato utile come teste nel dibattimento sul caso Nigeria. Sempre secondo Storari, le prove da lui raccolte sull’ex manager Eni Armanna (imputato e ‘grande accusatore’ molto valorizzato dalla Procura), tra cui chat ‘manipolate’, non vennero prese in considerazione dal procuratore Francesco Greco, dagli aggiunti Laura Pedio (con Storari si occupava dei presunti ‘depistaggì) e Fabio De Pasquale e dal pm Sergio Spadaro, né vennero depositate nel processo. Anche Armanna, ha denunciato Storari, non poteva essere ‘screditato’. De Pasquale e Spadaro, titolari dell’inchiesta Eni-Nigeria, sono indagati a Brescia per rifiuto di atti d’ufficio. Su questo caso si è aperto pure uno scontro tra pm e giudici che ha assunto contorni netti con il deposito delle motivazioni della sentenza di marzo.
De Pasquale e Spadaro in una “nota”, inviata il 5 marzo al procuratore Francesco Greco e all’aggiunto Laura Pedio, altro titolare del fascicolo sul ‘depistaggio’, avevano già risposto con una serie di osservazioni “critiche” ad una relazione degli investigatori, da loro definita “informale” e senza indice degli atti, che era stata inviata da Storari a febbraio e che conteneva il materiale da lui raccolto. Una nota in cui spiegano perché non avevano portato quegli atti nel processo. Undici pagine che nel giorno delle perquisizioni sui loro pc, i due magistrati avevano consegnato anche agli inquirenti bresciani. Con contestazioni sulla regolarità della procedura con cui Storari aveva acquisito le chat, perché la consulenza sul telefono di Armanna, scrivono, non è ancora terminata. Secondo la versione di Storari, coi suoi accertamenti si è arrivati a scoprire che Armanna avrebbe pure falsamente attribuito a Granata e Descalzi due numeri in realtà non intestati a loro. Tuttavia, per gli altri pm, quelle analisi non possono essere considerate definitive. E la chat sui 50mila dollari potrebbe anche riferirsi ad un ‘file’ che interessava ad Armanna.