Gli ospiti sono i primi ad uscire dagli spogliatoi. Si incolonnano in fila indiana, poi avanzano lentamente verso il campo. Un passo dopo l’altro, un sospiro dietro l’altro. Con i tacchetti che picchiano forte contro il pavimento e la testa che prova a immaginare quello che li aspetta lì fuori. Fischi che piovono giù dalle tribune. E una grandinata di insulti in una lingua straniera. Gli uomini in maglia bianca calpestano l’erba verde del Velodromo Sempione e alzano la testa verso le gradinate. È allora che quel suono si conficca nelle loro orecchie. Non sono fischi, ma mani che battono l’una contro l’altra. A migliaia. È un applauso lungo, sincero, accorato. Qualche giocatore ringrazia, qualcun altro ricambia. Quasi tutti si commuovono. Perché a rendere speciale quell’amichevole a Milano fra Italia e Austria è soprattutto la data scritta sul referto. Si gioca il 15 gennaio del 1922.
Non sono passati neanche tre anni dal Trattato di Saint-Germain. La ferita è ancora aperta. E lo sarà per molto tempo. Con quella pace armata l’Austria aveva ceduto al Regno d’Italia il Trentino-Alto Adige e i suoi territori in Friuli e Istria. Poi, qualche mese dopo, il Trattato di Rapallo aveva inasprito i termini della resa. La monarchia dello Stivale aveva diritto, fra l’altro, anche a Trieste, Gorizia e Gradisca. I vincitori avevano deciso. E gli sconfitti dovevano adeguarsi. Era la fine di un incubo lungo anni, di una guerra irraccontabile. E ora i vecchi nemici si ritrovano l’uno di fronte all’altro. Le casacche al posto delle divise, gli scarpini al posto degli stivali, il pallone al posto delle pallottole. Per un secondo su quel prato verde vortica un passato orroroso. La guerra di trincea e le spallate di Cadorna, gli uomini che corrono oltre le linee nemiche e i proiettili che fischiano e si conficcano nella carne, le dodici battaglie dell’Isonzo, gli stracci sudici di Guerra di Giuseppe Ungaretti, le armi che uccidono, o peggio ancora, mutilano. E ancora la battaglia di Caporetto, le accuse di ammutinamento, il sangue e la ritirata col cuore in gola, per ottanta chilometri. Indietro fino al Monte Grappa, indietro fino al Piave. Poi la resistenza. Ostinata, folle, disperata. Una mano anonima decide di trasformarla in motto. Anzi, in avvertimento.
A Sant’Andrea di Barbarana c’è una casupola mangiata a morsi dalla guerra. La metà di sinistra è crollata sotto le bombe. Quella a destra è ancora in piedi, cocciuta come un fiore che sbuca dalle macerie. Qualcuno decide di scriverci sopra un messaggio con la vernice: “Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati!”. La sconfitta certa che si trasforma in speranza di vittoria. Prima timida, poi decisa, sfacciata. Il Piave mormora, il nemico non è vinto, ma è fiaccato. Ora su quel prato verde del Velodromo due popoli ricordano per un attimo il male che si sono fatti, le vite che hanno spento, i traumi che hanno imposto. E decidono di andare avanti. I quindicimila che sono riusciti a comprare i biglietti nonostante i prezzi folli battono le mani a quelli che prima consideravano nemici. È una reazione che lascia tutti spiazzati. Soprattutto gli austriaci. Si sono presentati a Milano in rappresentanza di uno Stato diverso. Non ha più i vessilli imperiali gialli e neri, ma bianchi e rossi. Ed è alle prese con con un problema tutto nuovo. Perché dopo la fine della guerra Italia e Austria hanno conosciuto un altro avversario. Più invisibile, ma comunque subdolo. Si chiama inflazione.
Flagella tutti. Chi ha un reddito fisso. Chi non sa bene come mettere insieme il pranzo con la cena. Nel Bel Paese i prezzi crescono di quasi tre volte. Al di là delle Alpi di circa undici. La fine della guerra diventa la premessa di una nuova guerra. Lontana nel tempo, ma comunque impossibile da schivare. Nessuno in quei giorni sembra accorgersene, perché c’è un disperato bisogno di leggerezza, di autoconvincersi che la normalità non è poi un’utopia. L’avevano dimostrato due sere prima, quando la squadra austriaca era arrivata a Milano. Erano andati a salutarla in cinquanta. Vertici federali, vertici confederali, tifosi semplici. Qualcuno insiste per prendere la valigia di Hugo Meisl, allenatore dell’Austria, e portarla fino all’albergo dove si svolge il ricevimento ufficiale. È una cerimonia molto ristretta. Qualche discorso, tanti sorrisi. Meisl sembra spigliato. “Siamo animati verso di voi dai migliori sentimenti di cortesia: chiediamo cortesia”. La otterranno. Il giorno della partita il Velodromo è pieno fino all’ultimo posto. Anzi, i seggiolini non bastano.
Gli organizzatori trovano una soluzione creativa: due file di sedie numerate vengono poste sul prato. Ci sono giornalisti e sportivi. Ma anche politici, come gli onorevoli Benni e Zaniboni. Intorno alle 13.30 vengono chiusi i cancelli. Solo che cinque Azzurri sono in ritardo. Non si sono ancora presentati. E farli entrare risulta piuttosto laborioso. Così quando alle 14 l’Austria scende in campo dell’Italia non c’è neanche l’ombra. Gli uomini in maglia bianca e calzoncini neri continuano il riscaldamento. Si passano la palla, provano qualche tiro in porta. Poi dopo un quarto d’ora ecco che gli azzurri si affacciano dal tunnel. Il Velodromo deflagra in un altro applauso. Ancora più intenso, ancora più lungo. I capitani delle due squadre si scambiano sorrisi, mazzi di fiori e gagliardetti, si stringono la mano. Il primo tempo finisce 2-1 per l’Italia. Segna Moscardini, poi Santamaria annulla l’autorete di De Vecchi. Nella ripresa gli azzurri allungano grazie a un altro gol di Moscardini. È fatta. La Nazionale è riuscita a battere una delle squadre più forti del mondo. O almeno così sembra. Al 65’ Kock accorcia le distanze, poi dieci minuti più tardi Fischera inchioda il risultato sul 3-3. Stavolta non ci sono né vincitori né vinti. Le tribune del Velodromo si ammutoliscono improvvisamente. È come se chiedessero alle due squadre di continuare a giocare. Poi un tifoso si alza e imbocca l’uscita. Gli altri lo seguono. Uno dopo l’altro. Senza fretta. Si portano dietro l’amarezza per un successo sfumato. E la soddisfazione per aver sorriso a quello che fino a qualche tempo prima chiamavano nemico.