Domenica 3 giugno 1934, Anno XII dell’era fascista, stadio San Siro di Milano, 45mila spettatori. Un temporale si è abbattuto su Milano. Il campo è viscido, c’è fango. Terreno pesante, spiega alla radio Nicolò Carosio che è la “voce” dei Mondiali organizzati dall’Italia. In semifinale stanno per affrontarsi la nazionale italiana e quella austriaca. Mathias Sindelar, il “Mozart” del pallone, ricorda ai compagni del celebre Wunderteam che proprio lo stesso giorno, dieci anni prima, è scomparso Franz Kafka, il suo tifoso più illustre: “Se battiamo l’Italia, gli voglio dedicare la vittoria”. L’Austria è favorita. Detiene infatti la Coppa internazionale, vinta due anni prima, che è una sorta di campionato europeo. E’ guidata dal carismatico Hugo Meisl. Ha dichiarato ai giornalisti di Vienna che non teme l’Italia, “ma l’arbitro”.
Non ha poi tutti i torti. L’arbitro è lo svedese Ivan Eklind. Ha appena ventotto anni. Benito Mussolini l’ha invitato a cena la sera prima. I giornali francesi e soprattutto quelli spagnoli insinuano che nei confronti della compagine azzurra ci sia “favoritismo”. Nei quarti di finale l’Italia aveva dovuto affrontare la Spagna del celebre portiere Ricardo Zamora Martinez detto “el Divino” che sfoggia un basco spiovente. Gioca nel Real Madrid, è considerato il migliore del mondo. Infatti la partita finisce in parità grazie alle sue prodezze, un 1-1 difeso coi denti. Per cinque volte Zamora nega il gol agli italiani. L’incontro è di una durezza inconsueta, l’arbitro tollera falli e scorrettezze. Il giorno dopo, così prevedeva il regolamento, la partita si ripete. Stavolta, però, a difendere la porta della Spagna non c’è Zamora: ufficialmente ha due costole rotte, un occhio nero per un pugno. I giornali stranieri, invece, parlano apertamente di “un pagamento di regime” per tener fuori il portierone.
Fatto sta che l’Italia ha dovuto cambiare quattro uomini, la Spagna addirittura sette. Risolve la questione Giuseppe Meazza (Pepin): segna dopo appena undici minuti. Corner di Orsi, Guaita spinge Nogués (il sostituto di Zamora), Meazza si appoggia sulla schiena di Guaita e segna di testa, con Nagués spostato brutalmente. L’ineffabile arbitro svizzero Mercet fa finta di nulla, indica il centro campo e convalida il gol. Gli spagnoli pareggiano con Regueiro, Mercet annulla la rete per un misterioso fuorigioco. La partita degenera. Botte da orbi sino alla fine. Gli azzurri vincono di misura, si radunano a centrocampo per il saluto fascista, gli spagnoli li sfottono e mimano il saluto diretto all’arbitro e ai gerarchi in tribuna. La direzione di Mercet fu talmente scandalosa che la sua federazione lo radiò appena rientrato in patria.
E’ il Mondiale dei veleni. Dei sospetti. Dell’imperativo mussoliniano “Vincere o morire!”, messaggio recapitato al nostro commissario tecnico Vittorio Pozzo, buon giornalista, dirigente alla Pirelli, è il ct dal 1929. Monsù Pozzo, piemontese vecchio stile, toni ed atteggiamenti militareschi, portava i suoi calciatori a visitare i monumenti ai caduti, li costringeva ad intonare l’inno del Piave negli spogliatoi. Assecondava la retorica del regime (non fu tuttavia un vero fascista, al punto che aiutò i partigiani durante la resistenza) perché era pragmatico. Aveva già guidato la nazionale ai Giochi di Stoccolma, nel 1912, e fu lì che conobbe Meisl. Una rivalità durata decenni.
Un anno prima, alla Camera, Leandro Arpinati, figura atipica del fascismo italiano e gran modernizzatore dello sport italiano (riformò il campionato di calcio ed ottenne l’organizzazione dei Mondiali), aveva spiegato in poche parole quale doveva essere la linea: “Il campione è la sentinella avanzata che nelle competizioni internazionali rappresenta la patria e ne tiene alto il prestigio e la bandiera”. Il calcio, la vetrina del regime.
Sono le tre del pomeriggio, quando l’arbitro Eklind fischia l’inizio della semifinale. La formazione italiana era basata essenzialmente sul blocco juventino, tant’è che veniva chiamata “naziojuve”: il portiere Giorgio Combi (“il portiere più veloce di un petardo che in collegio a Pinerolo chiamavano Fusetta), il difensore Luigi Bertolini, i centrocampisti Luisito Monti e Giovanni Ferrari, la guizzante e minuscola ala sinistra Raimundo Orsi detto Mumo che segnava con la virtuosità del violinista e Felice Placido Borel, il “Farfallino”, gran centravanti (e giocatore i poker), uno dalla lingua tagliente e dal mirabolante piedino di fata misura 36. Pozzo lo detestava ma quando il titolare bolognese Angelo Schiavio era indisponibile, lo schierava…
Nonostante la prevalenza bianconera, il leader dell’Italia era Meazza, per il quale Pozzo stravedeva, e pure il regime: che diffuse un gossip sull’attaccante dell’Ambrosiana-Inter, noto sciupafemmine e però cittadino fascista esemplare perché “dorme con la foto di Mussolini sopra il letto”. Segnava sempre e dribblava chi gli pareva. C’era persino una canzonetta che lo celebrava con spirito: “La donzelletta viene dalla campagna/leggendo la Gazzetta dello Sport/e intanto lei va pazza per Meazza/che fa reti quasi a tempo di fox-trot”. Meazza contro Sindelar era la sfida annunciata. Pozzo ordinò a Luisito Monti di marcare stretto il fantasista austriaco. E fargli sentire i tacchetti addosso. Senza pietà.
Monti, uno dei cinque oriundi in squadra, era un veterano dei Mondiali, aveva già disputato quello in Uruguay del 1930. Ma con la maglia dell’Argentina…ed erano argentini Orsi, il micidiale e veloce Enrico Guaita e il centrocampista d’attacco Attilio José Demaria. Il quinto era il brasiliano Amphiloquio Marques Guarisi, “Filò” per i tifosi brasiliani, Anfilogino per gli italiani. Una mania, quella di saccheggiare i campionati sudamericani che provocò crisi diplomatiche e sventatezze. Nella Lazio, per esempio, l’unico italiano al cento per cento era il portiere.
Si nota la presenza di Eraldo Monzeglio del Bologna. Per lui si sono mosse le alte sfere. Il generale Giorgio Vaccaro, presidente della Federazione, era andato a trovare Pozzo poche ore prima della semifinale, accompagnato da Bruno e Vittorio Mussolini. Un fitto confabulare nella hall del Principe di Savoia, poi i tre si congedano, apparentemente soddisfatti. La politica impone. Pozzo esegue. Alla vigilia di ogni partita, Pozzo aveva l’abitudine di pranzare disponendo gli undici che avrebbero poi giocato tutti dallo stesso lato del lungo tavolo. Quel 3 giugno erano in dodici. Il 12esimo era Virginio Rosetta, uno degli artefici della grande crescita del calcio italiano.
Gli altri undici avevano capito l’antifona: “Quando Vivi si alzò per salire nella sua stanza, riposare brevemente e mettersi in tuta prima di andare allo stadio, Pozzo lo fermò: e lei dove va? Vado su a cambiarmi. No, lei non gioca mica. Rosetta non disse niente. Andò ugualmente nella sua stanza, fece la sua valigia e poche ore dopo era a Torino. Adesso che lo sa Starace succede la fine del mondo, disse qualcuno. Ma non successe nulla, semplicemente Rosetta non giocò più in nazionale”.
Mussolini considerava il calcio e più in generale lo sport come una fabbrica del consenso. La stampa debitamente enfatizzava i trionfi, fomentando un nazionalismo che era tutt’uno con l’appartenenza fascista. La dottrina sportiva del regime si focalizzava in cinque punti essenziali: l’azione, l’eroe, il corpo, la gioventù e soprattutto l’ideale dell’uomo nuovo. Il linguaggio delle 94 pubblicazioni sportive, tante se ne contavano nel 1934, era farcito di slanci dannunziani di quarta categoria, i pindari dello sport facevano a gara per esibire un lessico tronfio e ottuso. Quando l’Italia vincerà il Mondiale, Bruno Roghi, tra i più zelanti cantori delle gesta sportive in chiave nazionalpatriottica, scriverà: “La moltitudine posseduta da un sentimento che era di felicità e gratitudine…s’è rivolta al Titano che la scena grandiosa dominava col braccio teso e col sorriso sulle labbra. L’osanna del Duce ha l’intensità di un ciclone, l’austerità di un rito, il palpito commosso di un voto”.
L’Austria era conscia di essere in trappola. Non si batteva solo contro l’Italia, ma contro qualcosa di più complesso, e di inesorabile. L’ululato di San Siro, la mascella quadrata del Duce in tribuna d’onore, la sfilza dei gerarchi che l’assiepavano erano le quinte di una tragedia incombente. La grancassa dell’orgoglio nazionale dei fascismi che volevano soggiogare l’Europa, soffocare la libertà. Gli undici avversari, burattini della rivoluzione fascista che “farà grande l’Italia, comunque, dovunque, contro chiunque” (citazione mussoliniana del 28 ottobre 1926). L’Anschluss è alle porte, ormai, l’austriaco Adolf Hitler vuole annettere al Terzo Reich l’Austria, anche quella che gioca a pallone. E’ con tutto ciò che l’Austria deve fare i conti. Pure con l’ipocrita Jules Rimet, presidente della Fifa dal 1921. Coi giornalisti italiani elogia gli sforzi organizzativi italiani (otto stadi nuovi, infrastrutture eccellenti seconde solo a quelle britanniche), l’efficienza, la spettacolarità della manifestazione. L’affluenza conforta le spese, 368mila spettatori e incassi superiori al milione e mezzo di lire, una cifra ragguardevole. Il regime ha garantito il funzionamento della macchina. La propaganda su due fronti. Quello del fascismo. E quello del calcio. Do ut des. Come si può non tenerne conto? Ma con gli stranieri fa trapelare di essere rimasto sconcertato dall’assoluta incompetenza di Mussolini.
Pure Pozzo è consapevole dei significati che trascendono il mero aspetto sportivo. Ha lavorato infatti molto sulla psicologia dei giocatori. Ha smussato le acerrime rivalità tra i giocatori della Juventus e quelli dell’Ambrosiana-Inter che hanno infiammato il campionato e che non si sono ancora spente. Deve rimuovere il trauma che ha inciso sul morale dei suoi uomini dopo la bruciante sconfitta patita solo quattro mesi prima. Già: l’11 febbraio 1934, il Wunderteam ha sbaragliato l’Italia allo stadio Mussolini di Torino. Un umiliante quattro a due. Con Karl Zischek, l’ala destra che milita nel Wacker Vienna, che sigla una formidabile tripletta. Il Duce, furibondo, pretese la testa di Umberto Caligaris, il decano della nazionale italiana (alla cinquantanovesima presenza, un record che resistette sino al 1971, battuto da Giacinto Facchetti) reo di non essere riuscito a marcarlo. Fu il capro espiatorio.
C’è tutto questo, in campo. Il pallone è ormai un affare di Stato. La partita è accanita. Epica. Il tifo, travolgente. L’arbitro lascia fare, piovono legnate sugli austriaci, Monti è brutale col fuoriclasse Sindelar, il “falso nueve” inventato da Meisl. Al diciannovesimo del primo tempo l’argentino Guaita è lesto nell’infilare in rete la palla che ballonzolava sulla linea di porta, approfittando di una vistosa carica dell’astuto Meazza su Peter Platzer. Le cronache nostrane e faziose dell’epoca riferiscono che sarebbe stato Platzer a intervenire fallosamente sulla mezzala italiana, restandone travolto. Oggi, quel gol sarebbe stato tranquillamente annullato. Ma allora non c’erano telecamere, tantomeno il Var. E l’arbitro Eklind aveva avuto l’onore di cenare con il Duce…così ignora le proteste. L’assedio degli austriaci sarà inutile. Vince la logica italiana del fallaccio sistematico. Violento. Premeditato. Sindelar dovrà farsi curare in ospedale. Dove conosce Camilla Castagnola. Colpo di fulmine. Camilla, insegnante milanese di religione ebraica, segue Mathias a Vienna, vanno a vivere in Annagasse, vicino al Caffè ristorante che il campione ha acquistato da un amico ebreo. Quando si insedia la Gestapo a Vienna, il locale verrà tenuto sotto sorveglianza perché frequentato da ebrei e perché il calciatore è antinazista. Il 23 gennaio del 1939, Mathias viene trovato morto, accanto a Camilla, agonizzante (spirerà due giorni dopo). Avvelenati dal monossido di carbonio. Come, non lo sapremo mai.