Calcio

Il Benfica di Eusebio, il derby di Milano, l’impresa della Roma: diciamo addio (e grazie) alla regola del gol trasferta

Il gol in trasferta "che vale doppio": un principio diventato dogma, un distributore di lacrime e sorrisi che ha regnato per quasi 60 anni sulle tre competizioni continentali. Nato per dare un peso alle reti segnate in stadi avversari, dove il calcio e i tifosi avevano una loro peculiarità, viene abolito nell'anno in cui gli spalti sono rimasti vuoti per la pandemia, non prima di aver regalato storie di pareggi diventati vittorie o sconfitte memorabili

Ha regnato sulle tre competizioni continentali per quasi sessant’anni, distribuendo lacrime e sorrisi in parti non esattamente uguali. Un principio che era diventato dogma. Una regola che sembrava uscita da un libro di George Orwell. Tutti i gol sono uguali. Ma alcuni sono più uguali di altri. Almeno fino a ieri. Perché i padroni del pallone hanno detto basta. In un mondo globalizzato e standardizzato, quel principio era diventato anacronistico. Anzi, iniziava a produrre l’effetto contrario rispetto all’obiettivo originario. Dalla prossima stagione i gol nelle coppe europee avranno tutti lo stesso identico valore. Sia quelli segnati in casa. Sia quelli segnati in trasferta. In caso di pareggio nel numero delle marcature si andrà avanti a giocare. Prima i supplementari. Poi i calci di rigore. Lo scisma è stato annunciato dal presidente dell’Uefa, Aleksander Ceferin. La regola del gol in trasferta “ultimamente dissuade le squadre di casa ad attaccare perché temono che concedere un gol possa dare agli avversari un vantaggio cruciale“, ha detto.

Ma la crisi del principio era iniziata un anno fa. Con gli spalti vuoti e le coppe continentali giocate su campo neutro. La distinzione fra casa e trasferta era diventata improvvisamente labile, cervellotica. Aveva perso il suo spirito originale. Perché quella regola era stata creata nel 1965. Otto anni dopo il Trattato di Roma. L’Europa unita era un’idea che vorticava sulla testa di nazioni molto diverse. E molto divise. I confini erano ancora linee marcate. Quello che c’era all’interno era espressione di una comunità ben definita dal punto di vista etnico, politico, linguistico. E anche calcistico. Ogni nazione giocava al calcio con una propria specificità. Anche se spesso era più il frutto di stereotipi che di attenta osservazione. E dare un peso maggiore al gol segnato in trasferta voleva dire riconoscere questa peculiarità. Voleva dire prendere atto che non tutti i campi erano ancora uguali. Un concetto allora magnificamente espresso da George Best dopo una trasferta in Albania: l’erba era talmente alta che avevo paura che saltasse fuori una tigre da un momento all’altro. Ma voleva dire anche riconoscere il miedo escenico che uno stadio sapeva infondere agli avversari, significava considerare il pubblico di casa un fattore determinante ai fini del risultato e non un insieme di spettatori. Nel bene e nel male, come disse Roy Keane: “In trasferta i nostri fan sono fantastici. Ma quando giochiamo in casa bevono pochi drink e probabilmente mangiano i panini con i gamberetti, così non riescono a capire quello che succede sul rettangolo di gioco”.

Un gol assumeva un peso specifico anche in base all’impianto dove veniva realizzato: al Camp Nou, al Marakana di Belgrado, ad Anfield, al Bernabeu. Riuscirci non era da tutti. Per questo il gesto andava premiato. La rete in trasferta che rendeva il doppio era anche un salvacondotto, un modo per lasciare una porta aperta in vista del ritorno. E magari anche la pietra sulla quale edificare la propria impresa. Sono tante le partite che hanno sconfinato nella leggenda grazie a una rete segnata lontano da casa propria. Il primo ad approfittarne è il Benfica. Coppa dei Campioni 1967/1968, nel primo turno i portoghesi sono sotto 1-0 in casa del Glentoran. Sembra finita. Poi Eusebio segna il pareggio a 4’ dalla fine. Due settimane più tardi è ancora battaglia. Il Benfica prova in tutti i modi a segnare ma sbatte contro il muro nordirlandese. La Perla Nera non trova il gol. Ma non fa niente. Basta quello dell’andata. Così i biancorossi volano al turno successivo.

Nel 1977 la Juventus si gioca la finale di Coppa Uefa contro l’Athletic Bilbao. Il regolamento parla chiaro: il trofeo viene assegnato al termine di una doppia finale. Al Comunale ci pensa Tardelli. Poi nel return match tocca a Bettega. La Juventus è in vantaggio. Ma si fa recuperare. I baschi vincono 2-1. Eppure non basta. È un 2-2 totale che trasforma la matematica in un’opinione. Perché il gol siglato dai bianconeri vale doppio. Quindici anni più tardi toccherà all’altra parte di Torino confrontarsi con la ferrea legge della trasferta. In casa finisce 2-2. Per vincere il trofeo serve un’impresa ad Amsterdam. I granata ci vanno vicinissimi. Colpiscono tre pali. E l’arbitro non fischia al Toro un rigore piuttosto evidente. Emiliano Mondonico afferra una sedia e la alza fino a portarla sopra la sua testa. È un gesto che diventa iconico. Una foto che vale più di mille grida. Perché lì dentro è condensata tutta la frustrazione per un destino che sembra accanirsi sempre contro la stessa squadra. La vittoria non arriva. Eppure quella partita verrà avvolta da uno strato d’epica tutta particolare. Quello che trasforma le imprese sfiorate in emblemi della nostalgia.

Ma la regola del gol in trasferta ha avuto sempre un fascino crudele. Anche perché viene è riuscito a piegare la logica. Nel 2003 Inter e Milan si affrontano nella semifinale di Champions League. Due squadre della stessa città. Due club che giocano nello stesso stadio. Nessuno si aspetta che il vero arbitro di quella partita sia il sorteggio. L’andata si gioca in casa del Milan. E finisce 0-0. Il ritorno va in scena in una San Siro putativamente nerazzurra. Shevchenko e Martins scolpiscono il finale sull’1-1. È una beffa. Perché il Milan vince per i gol fuori casa. A casa sua. L’anno dopo il Diavolo cera il bis. In semifinale i rossoneri pescano il Psv. A Milano finisce 2-0. Nella sfida di ritorno gli olandesi azzerano l’equazione, ma non la sostanza. Finisce 3-1. E il gol di Ambrosini trascina il Milan in finale. È quasi un peccato di tracotanza. Che la squadra di Ancelotti pagherà contro il Liverpool.

Ma senza i gol in trasferta la letteratura sportiva sarebbe più povera. Nel 2009 Chelsea e Barcellona si affrontano in semifinale di Champions. Al Camp Nou è 0-0. Poi i Blues centrano l’impresa a Stamford Bridge. È 1-0 grazie a Essien. Il risultato che non ti aspetti segnato dal giocatore che non ti aspetti. È un orgasmo per i tifosi inglesi. Che si trasforma in dolore lancinante in pieno recupero. Messi è tutto defilato sulla sinistra dell’area inglese. La controlla con il sinistro. Due volte. Davanti a sé ha un muro fatto di maglie blu. Così fa viaggiare il pallone verso destra. Appena fuori dall’area di rigore sua Maestà Andres Iniesta calcia senza neanche controllare. Il colpo non è stilisticamente perfetto. Ma la palla finisce sotto l’incrocio. Il Barça vola a Roma. In finale batte il Manchester United in quella che è l’inizio dell’epopea di Guardiola.

L’ultima grande impresa è datata 2018. La Roma di Di Francesco prendere quattro schiaffi al Camp Nou nell’andata dei quarti di Champions. Dzeko però riesce a segnare un gol. Più per l’onore che per la speranza. Nessuno sa ancora che si tratta di una rete preziosissima. All’Olimpico finisce 3-0. Con Manolas che corre con le braccia aperte e il viso stralunato. La Roma vince in casa ma va in semifinale per un gol segnato a Barcellona. Storie che da ieri fanno parte del passato. Perché la regola del gol fuori casa è stata abolita. Proprio ora che gli stadi stavano per riaprire. E il pubblico poteva tornare a fare la differenza.