Egiziano, 16 anni compiuti, un viaggio di sei mesi per mare concluso prima di arrivare, un altro – 4 mesi di trekking invernale lungo la rotta dei Balcani, era partito in aereo da Hurgada con destinazione Istanbul – conclusosi con l’arrivo a Trieste e la destinazione a una comunità di accoglienza nella periferia novarese. Completamente analfabeta, ma in possesso di un regolare diploma equivalente alla nostra Licenza Media, ottenuto d’ufficio mentre faceva il garzone da un barbiere (dalle 9 alle 22 tutti i giorni) che l’aveva preso a servizio quando di anni ne aveva appena 11.
Timido e triste, sempre da solo, spedito qui in cerca di un riscatto famigliare che comincia col padre – ponteggista in nero a Milano, caduto da una delle impalcature che costruiva, diventato per questo parzialmente invalido e prontamente rispedito a casa con un due soldi di risarcimento – e potrebbe concludersi col suo successo, se solo ce la farà a resistere qui, da solo, a smaltire gli orrori che ha dentro.
Fa in tempo ad arrivare in comunità e scatta il lockdown per Covid-19. A scuola non viene neanche iscritto, è tutto chiuso; riaprirà poco prima della fine dell’anno scolastico, nessun senso andarci per qualche giorno. Ha così perso i suoi primi 4 mesi; per fortuna un po’ di italiano comincia a impararlo grazie a educatori e ospiti della comunità. Il giovanotto ha anche considerevoli problemi di salute, qui li mettiamo da parte, ci vorrebbe più spazio. È visibilmente debilitato e l’inattività dell’isolamento non lo aiuta.
Arriva l’estate del 2020, ha capito che, senza lingua italiana parlata e scritta almeno un pochino, non andrà da nessuna parte, soprattutto non potrà coronare il suo sogno di aprire un salone di parrucchiere e barbiere per uomo. Dunque non vede l’ora che la scuola cominci anche per lui. Iscritto al Cpia di Novara, scopre ben presto che la sua possibilità di scolarità è molto limitata: un’ora al giorno per cinque giorni la settimana, come le badanti o gli operai col permesso di soggiorno ballerino. Ma lui è un adolescente che avrebbe bisogno di stare a scuola tutte le mattine e, magari, anche qualche pomeriggio, per compiere tutte le esperienze culturali e sociali di quell’età, imparando bene e in fretta quel po’ di italiano che gli serve per spiccare il volo. I suoi coetanei minori stranieri di Torino godono di ben altro trattamento: scuola in presenza almeno 20 ore la settimana, accompagnate da una girandola di proposte per i pomeriggi e i momenti liberi, festivi compresi. La prova che non conta solo dove sei nato, ma anche dove finisci una volta che te ne vai.
Autunno 2020, ricomincia la scuola e riesplode la pandemia: tutti chiusi dalla seconda media in su. Il suo corso di alfabetizzazione comincia solo a ottobre, un mese dopo passa in Dad, mentre i suoi coetanei torinesi continuano ad andare a scuola perché equiparati a Bes (Bisogni educativi speciali), bisognosi di formazione come sono per integrarsi al meglio. Si va avanti così fino a Natale, a gennaio si riapre, finalmente si comincerà a fare sul serio. Macché, tutto come prima al Cpia di Novara: un’ora al giorno, questa volta in presenza.
A metà gennaio, come suo tutore volontario, sollecito un incontro alla dirigente scolastica del Cpia per chiedere che venga inserito in un corso completo, come i suoi coetanei di Torino, di Cuneo e di Alessandria. Prende il via una giostra kafkiana: rimandi, rimpalli, di tutto per evitare il confronto, insomma il solito atteggiamento della burocrazia malata d’Italia. Una vera vergogna, nascosta malamente sotto le coltri del burocratese scolastico – Ptof, autonomia scolastica (maledetta!), collegio dei docenti, territorialità eccetera –, tutto quanto finalizzato a respingere la richiesta di inserimento del ragazzo in corsi di maggiore durata e spessore, gli stessi che frequentano i suoi coetanei stranieri in Piemonte (copia del carteggio a disposizione). Una frase, fra le tante scritte dalla dirigente scolastica a coprire scelte vergognose, vale però la pena di riportarla: “Tali scelte (quelle del Cpia di Novara) non possono essere accostate ad altre Istituzioni Scolastiche autonome in quanto da calarsi nel contesto di riferimento”. In italiano corrente “noi a Novara facciamo come cavolo ci pare”.
È passato un anno e siamo daccapo. Scalfire il muro di gomma non sembra possibile, nemmeno dopo aver interessato alla questione la Garante Regionale dei Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, perciò non resta che fare istanza al Giudice Tutelare del Tribunale dei Minori perché il ragazzo venga spostato altrove. Tempo una settimana e il Giudice dispone il trasferimento del ragazzo a Torino. Siamo agli inizi di marzo 2021, finalmente qualcosa si muove.
La storia meriterebbe più spazio: sappiano i lettori che dal 1° giugno il giovanotto è stato trasferito a Torino, iscritto a razzo a una scuola che ha iniziato a frequentare subito, purtroppo solo fino al 10 giugno. Per fortuna la comunità dove vive adesso gli ha procurato un corso estivo di italiano e tutti i pomeriggi frequenta le attività di Asai, una specie di scuola estiva. A luglio seguirà anche qualche corso a Civico Zero. Come mai se il giudice tutelare si è pronunciato a marzo, il ragazzo è stato spostato solo a giugno?
Ho esaurito lo spazio, non posso qui raccontare anche questa incredibile vicenda, ma di professionisti e dipendenti della Pa che trattano con sciatteria l’umanità di cui dovrebbero occuparsi con ben altro vigore e impegno in questa storia ce ne sono davvero tanti: la scena della distribuzione dei migranti di Tolo Tolo non è invenzione. Per fortuna ce ne sono anche altri ben più consapevoli di trattare vite, non seccature, purtroppo mortificati dai tagli continui e dalla mancanza di controlli da parte di chi dovrebbe farli, dai servizi sociali dei Comuni alle strutture ministeriali preposte alla ricollocazione dei ragazzi. Le leggi ci sono, non ne servono altre, ma chi deve farle valere troppo spesso fa finta di nulla o scrive circolari.
Se la storia vi ha fatto venire il mal di stomaco, vi propongo di lavorare perché le cose cambino, a cominciare dai comportamenti di chi è pagato per far funzionare le cose, da chi dirige e da chi esegue. L’umanità è davvero una risorsa, specialmente quella più giovane: il giovanotto (e i tanti come lui), finalmente alfabetizzato, potrebbe essere fra quelli che domani pagheranno le nostre pensioni.