Francesco Decarolis esperto di Microeconomia applicata: "Le regole sono fondamentali e i mercati funzionano dentro le regole. Ma devono essere ben fatte, altrimenti distruggono il mercato. Il problema non è il subappalto in sé, ma la criminalità. E bisogna combattere la criminalità, non il subappalto"
Riuscirà l’Italia a uscire dalla dicotomia tra libertà d’impresa e criminalità organizzata quando la posta in gioco sono gli appalti pubblici? La ferita si riapre ogni volta che viene messa in rampa una grande opera. Figuriamoci ora che il Recovery Fund è dietro l’angolo con miliardi di investimenti pubblici da mettere a gara che già scuotono il pur giovane Codice degli appalti. Rinfocolando dibattito e polemiche, stuzzicando appetiti e mal di pancia. La questione è delicata. Anzi, delicatissima. Da un punto di vista giuridico è stata analizzata in lungo e in largo, e così la normativa che ha cercato di declinare fino ai minimi dettagli la previsione e la prevenzione di ogni possibile malaffare. Ma di questo passo, è la critica più ricorrente, quando anche si riuscisse a prevenire il crimine, non si è più in grado di garantire l’opera. E quindi il denaro e i servizi dei contribuenti.
Francesco Decarolis, economista, esperto di Microeconomia applicata e discreto ottimista, vede la questione da un altro punto di vista, che entra nel merito del lavoro pratico di tutta la filiera della produzione dell’opera, dal bando di gara alla consegna. Ilfattoquotidiano.it lo ha incontrato all’ultima edizione del Festival dell’Economia dedicata al Ritorno dello Stato, dove non a caso è stato dell’incontro intitolato “Appalti”, in un dialogo con Silvia Pellizzari, ricercatrice di diritto amministrativo all’Università di Trento. Decarolis definisce il suo un approccio pragmatico ed empirico. Invece di procedere dall’universale al particolare, si muove dal singolo dettaglio per provare a migliorare l’intero procedimento, un pezzo alla volta. E molti dei suoi suggerimenti attingono all’esperienza maturata nel corso di una lunga frequentazione delle università statunitensi.
“Invece che deregulation, better regulation: perché le regole sono fondamentali e i mercati funzionano dentro le regole. Ma devono essere ben fatte, altrimenti distruggono il mercato – è il motto dell’economista -. Ma in un ambiente come quello degli appalti pubblici è veramente difficile disegnare buone norme, perché ci sono tanti obiettivi anche in contrasto tra loro: dai costi alla qualità dell’esecuzione, dai tempi di realizzazione delle opere ai rischi di collusione tra le imprese, di corruzione”. La soluzione, o meglio una delle soluzioni, secondo Decarolis è quella di introdurre anche in Italia norme in via sperimentale, e rendere definitive solo quelle che hanno dato risultati adeguati. “Non si può pensare che arrivi il professore, il governatore o chicchessia e scriva la regola perfetta che faccia funzionare gli appalti pubblici in maniera ineccepibile – è il suo ragionamento -. Si può cercare di fare delle regole buone, di misurarne gli effetti e gradualmente modificarle per averne di migliori. Non è una cosa tanto strana, richiede solo un modo diverso di legiferare”. Un modo che ad esempio si occupi dei principali obiettivi da raggiungere, lasciando il compito di dettagliare singoli regolamenti alle autorità di settore, l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) nel nostro caso.
Entrando poi nel vivo delle procedure di affidamento degli appalti, un elemento che secondo l’economista farebbe davvero la differenza è il rating d’impresa, già previsto dal codice del 2016 è purtroppo rimasto lettera morta. “Bisogna costruire gare utilizzando un criterio simile a quello che ciascuno di noi adotterebbe a casa propria se dovesse avviare una ristrutturazione”, spiega, suggerendo per esempio di puntare all’offerta economicamente più vantaggiosa attribuendo però una parte del punteggio al prezzo e l’altra in base a un indice reputazionale, e cioè una scala di parametri che misurano il comportamento pregresso dell’impresa. “In un sistema del genere le imprese hanno la possibilità di adattarsi e decidere di comportarsi bene nell’esecuzione di un contratto perché farlo significa accumulare punti da usare per le gare future”. Il diavolo come sempre è nei dettagli: “Quali parametri monitorare? Quali punteggi dare? Come effettuare i monitoraggi per evitare che chi li fa sia colluso con l’azienda? Come trattare le nuove imprese che vogliono accedere al mercato ma non hanno un pregresso? Dall’efficacia delle risposte dipende il successo del sistema”.
Dall’altro lato della barricata ci sono poi l’incentivazione e “la qualificazione delle stazioni appaltanti”. Queste, oltre ad essere addirittura 35mila, fanno acqua da tutte le parti. In più hanno informazioni parziali perché la banca dati di un comune non parla con quella della provincia e nessuna delle due è in grado di dialogare col ministero o con la regione. Quando poi a non parlarsi sono addirittura due uffici dello stesso ente. Il risultato è che non solo non c’è un rating dei fornitori, ma nemmeno la completezza e la condivisione delle informazioni base sugli stessi fornitori.
Il tema della qualità della stazione appaltante non è affatto secondario. Al netto delle effettive competenze, nella maggior parte dei casi il funzionario pubblico teme la possibilità di essere accusato di danno erariale, e la qualità dei progetti e delle opere finisce in secondo piano. Così capita di scivolare nella cosiddetta burocrazia difensiva, quella che punta a tutelare l’amministratore pubblico invece di concentrarsi sulla cosa pubblica amministrata. Con comportamenti che ad andar bene si risolvono nel procrastinare le decisioni all’infinito, chiedendo aggiornamenti documentali su aggiornamenti documentali. O peggio nel rimandare all’infinito le necessarie delibere per non decidere mai. Così il funzionario si sente al riparo dai rilievi della Corte dei Conti, ma l’oggetto dell’appalto non viene realizzato.
La tentazione, anche qui, è spesso quella di provare a sbloccare le cose deregolando, cioè ammorbidendo le responsabilità dell’amministratore. Ma non è una soluzione. La ricetta di Decarolis prende ancora una volta spunto dagli Stati Uniti dove, ricorda, per risolvere il problema della medicina difensiva alcuni Stati hanno previsto per legge dei massimali per le responsabilità del medico, che quindi è già in grado di conoscere in anticipo il prezzo massimo da pagare per gli eventuali danni da lui provocati. Patti chiari, insomma. “Di conseguenza i premi delle polizze professionali si sono ridimensionati perché commisurati a un determinato massimale. Quindi – è il suggerimento – si potrebbero introdurre dei tetti per il danno erariale che diano anche all’amministratore pubblico delle certezze nel momento in cui dovrà scegliere come comportarsi”, evitando che conseguenze incerte lo spingano a rifugiarsi nell’autotutela.
Quanto alle competenze, meglio farebbe il funzionario se potesse contare sull’accesso a tutte le informazioni disponibili sui fornitori della pubblica amministrazione. E in questo caso la strada è ancora lunga. “L’esperienza che abbiamo è pessima”, sostiene Decarolis spiegando che gli uffici pubblici potrebbero contare su una banca dati unica che esiste da oltre vent’anni. Se solo funzionasse. “Negli anni in cui il Mario Draghi ne era Governatore, la Banca d’Italia pubblicò un rapporto sulle infrastrutture e uno dei capitoli di quel rapporto riportava una tabella in cui si diceva sostanzialmente che nell’analisi dell’esecuzione degli appalti pubblici, quasi tutti i dati provenienti da alcune regioni erano inutilizzabili”, racconta l’economista. Questo perché le banche dati sono state negli anni solo un peso per le amministrazioni che le dovevano riempire. Così il lavoro è stato fatto male e il potenziale strumento di indirizzo è diventato solo una zavorra. Assurdo se solo si pensa a cosa riescono a fare oggi Google, Amazon e gli altri giganti del web con ogni singolo pezzo di informazione che noi stessi forniamo loro in qualità di utenti. Adesso il libro dei sogni della ripresa prevede passi da gigante con la digitalizzazione dei processi e la creazione del fascicolo unico delle imprese sotto la regia dell’Anac. Non resta che aspettare di vedere se il sogno diventa realtà.
Ma non è tutto. Restano grandi scogli come il subappalto, tema che più di altri ha scatenato polemiche quando il governo ha deciso di allargarne l’applicazione. Ma Decarolis tira dritto: “Il problema non è il subappalto in sé, ma la criminalità. E bisogna combattere la criminalità, non il subappalto, perché quest’ultimo serve anche per l’efficienza dell’azienda, per allocare il lavoro in modo efficace”, dice. Analogamente la giurista Pellizzari sottolinea come “creare un sistema dove si cerca di poter disciplinare tutto, significa solo gravare l’azione amministrativa”. In pratica la soluzione giuridica sarebbe abbandonare l’utopia della prevenzione assoluta e puntare di più sui controlli ex post. D’altro canto, però, la stessa giurista ricorda come l’appalto è sempre stato “uno strumento con cui lo Stato in qualche modo derogava alle proprie funzioni… ma se il ritorno dello Stato in questo settore è il ritorno dello Stato delle deroghe o della continua emergenza, allora continua a operare senza migliorare il quadro complessivo”.