Ach! “Sehr stark reicht nicht zur Sensation”. Siamo stati molto forti ma non abbastanza da creare sensazione, titolano i nostri quotidiani, per risollevarci il morale e per lenire il dolore dell’impresa mancata per un niente…”Tanti vincitori nell’amara sconfitta”, scrive il Kurier; “eliminazione tardiva dopo una lotta eroica”, però sul sito il titolo principale, nelle pagine dedicate all’Euro, è quello dedicato al politologo Peter Filzmaier, 53 anni, docente di studi sulla comunicazione e la democrazia, autore, fra l’altro, di un recente saggio su “Cosa hanno a che fare le mie più belle storie di sport con la politica” (2020). In sostanza, Filzmaier sostiene che il “calcio apolitico è una menzogna”. Affermare che il calcio debba essere solo un gioco e che i calciatori non debbano esternare le proprie opinioni con gesti altamente simbolici fa comodo ai nemici delle libertà e dei diritti umani, agli autocrati non democratici che vogliono strumentalizzare questo sport. Il calcio è drammaturgia. Rappresentazione. Occasione.
E ieri sera, la nostra impressione più acuta si fondava su un terreno assai più friabile di quello in cui si stavano affrontando Italia ed Austria. Le nostre prospettive oscillavano come pendoli, e tuttavia, una certezza pervadeva i nostri pensieri. Eravamo, cioè, sicuri che l’ansia di prestazione potesse danneggiarvi. Sapevamo che non poteva mancare, dopo tutte le pressioni che avevano circondato la Squadra Azzurra. Sarebbe stato un punto a nostro favore. Fosse stato prevalente, avrebbe rafforzato le nostre speranze. Aggiunto al fatto che avrebbero patito la fisicità dei nostri marcantoni…
Per questo, ci siamo impegnati a fondo in questa “scherma spirituale” e sul campo siamo stati abili a parare e poi colpire di rimessa, mentre voialtri sprecavate qualche buona occasione, ma si vedeva che eravate preda della testardaggine e anche un po’ della vanità: in questi giorni siete stati lusingati da troppe adulazioni, troppi elogi, troppi trionfalismi. Vi hanno convinto d’essere insuperabili. Avreste invece dovuto leggere il nostro grande Arthur Schnitzler che quasi cent’anni fa raccontò come ci sia sempre, in agguato, il destino, pronto a rovesciare le parti, pronto ad indurci in inganno, pronto soprattutto ad illuderci. Perché certe volte la sicurezza d’essere oggettivamente più forti non basta. La realtà è piena d’ostacoli, i terzini della mente, i centravanti delle paure, i portieri della psicologia sono avversari infidi. Insomma, sapevamo che dovevamo giocare sempre d’anticipo, approfittare della vostra prosopopea – quel Verratti, per esempio, è stato il nostro dodicesimo giocatore… – ed essere rapidi e velenosi. Sentivamo, noi austriaci prigionieri di un formidabile passato, che ogni nostro passaggio, ogni nostro virile e ruvido, orgoglioso contrasto, ogni nostro intervento era come se la vita ci passasse tra i denti ed ogni minuto in più guadagnato senza subire rete era un minuto strappato alla sicumera di chi ci voleva morti. Sugli spalti, avvolti nelle nostre bandiere bianche e rosse, scoprivamo d’essere dentro un sogno ad orologeria.
Vi stavamo quasi per battere. Quasi. Al 65esimo del secondo tempo. Assist di testa del nostro capitano Alaba e Marko Arnautovic, ancora di testa, che insacca alle spalle di Donnarumma. Il check Var è durato due minuti. Di pene atroci. Siamo stati ad un mezzo passo dal successo. Quel maledetto mezzo passo del fuorigioco scovato dal Var. Quando l’arbitro inglese Taylor ha sollevato il braccio, al 67esimo, ed indicato che il gol di Arnautovic, il migliore dei nostri, era annullato, siamo precipitati nell’angoscia. Freud e Jung incombono sempre… Eravamo, Marko e noi, sballottati “sulle montagne russe delle emozioni” (rubacchio dal titolo della Krone Zeitung, il giornale più diffuso in Austria).
Una lunga agonìa ci attendeva, consapevoli purtroppo che la fortuna non ci sarebbe stata più propizia. Il pessimismo della ragione contro l’irrazionalità della speranza. Dopo aver sfiorato la nuova Caporetto (calcistica) che si sarebbe trasformata in tragedia nazionale, voi vi siete ricompattati e alla fine, negli estenuanti tempi supplementari, ci avete sconfitti. Di misura, il che non ci consola. Possiamo solo constatare che, allegoricamente, la Storia si è ripetuta. Ancora una volta, i nostri cannonieri (nella fattispecie, l’aitante Arnautovic che a quanto si dice potrebbe essere preso dal Bologna) sono stati in grado di domarvi. Nemmeno i disperati assalti degli ultimi sussulti, coronati da un incredibile gol di Sasa Kalajdzic, il giocatore più alto (e tra i più abili) del torneo, al 114esimo. Sei lunghissimi interminabili minuti di illusioni. E sofferenze: per noi. Ma anche per voi. Avete sbagliato tante occasioni, lo ammettiamo. Pure noi, dovete ammetterlo, ci siamo divorati dei gol che parevano sacrosanti. Abbiamo combattuto finché è stato possibile. Nella Grande Guerra gli ufficiali di entrambi i fronti incitavano i loro soldati a battersi fino alla morte. Nella partita di Wembley, sabato sera, notte di san Vigilio, il sacrificio è stato sigillato dal significato, non dal risultato. Abbiamo dimenticato che c’è sempre quell’elemento imponderabile della sorte, fatto di tutto ma anche di niente. Ossia la fortuna. Dalle nostre parti si dice che la fortuna e l’occasione bisogna saperle afferrare. Bachmann, il nostro pur bravo portiere, non l’ha fatto con Chiesa e Pessina. Ogni sconfitta, in fondo, è un addentrarsi nell’ignoto. Ieri sera, il vento che soffiava forte su Wembley, aveva il mormorio di una fontana. Quella delle nostre lacrime perse. La tacita assurdità – per dirla con Kakfa nel suo Messaggio all’Imperatore – è che il gioco più bello del mondo sia anche, per gli sconfitti, il “gioco più brutale”. Inconsolabilmente crudele.