Ho iniziato a fare questo mestiere a 20 anni, nel giornale della mia provincia. All’epoca studiavo all’università, mi preparavo per diventare maestro di sci ed ero felicissimo di lavorare per un quotidiano che, dove sono cresciuto, era un’istituzione. Ed ero felicissimo di farlo nonostante i 13 euro lordi a cartella (la cartella corrisponde a 30 righe, 1800 battute). A volte mi capitava di dover fare 60 chilometri – il rimborso per la benzina non esisteva – per seguire Consigli comunali di paesi da 300 abitanti. Oppure passare interi pomeriggi al cellulare per intervistare sindaci o chiedere questo o quello ai carabinieri. D’estate mi trasferivo in città e lavoravo in media dieci ore (certe volte anche 12-13) a stretto contatto con la redazione. E a fine mese, se andava bene, portavo a casa 900-1000 euro netti (facevo anche i servizi per il tg, che venivano pagati di più). Ma tutto questo non mi pesava. E non mi pesava per un motivo: avevo la fortuna di avere una famiglia alle spalle.
Lì ho imparato a fare un lavoro, ho conosciuto professionisti così bravi che, sono convinto, nelle redazioni nazionali non scenderebbero sotto il gradino di vicedirettore. E poi, va detto, quei 13 lordi a cartella erano tanti. Cioè, erano pochi, ma se confrontati con la maggior parte dei quotidiani italiani erano tanti: ci sono giornali che per un articolo corrispondono, ai collaboratori, due, cinque euro lordi; e ci sono quelli che promettono di pagarti e alla fine non lo fanno.
Tutte cose già note? Senza dubbio. Ma secondo me vale la pena ricordare lo stato delle cose, visto che il 99% delle testate è restio a trattare l’argomento. E vale la pena farlo anche per un’altra ragione, che in questi giorni mi ha dato da riflettere. Il 21 giugno scorso sono passati dieci anni dal suicidio di Pierpaolo Faggiano, giornalista precario di 41 anni, collaboratore della Gazzetta del Mezzogiorno, che lasciò una lettera alla madre denunciando il disagio esistenziale dovuto alle condizioni di precarietà – meglio dire, sfruttamento – cui era costretto.
Il suicidio di Faggiano, allora, fece scalpore. Come se d’un tratto giornali ed editori si fossero accorti del trattamento che già riservavano ai propri collaboratori. Il caso diede la spinta per l’approvazione della Carta di Firenze (che recita, appunto, “in memoria di Pierpaolo Faggiano”) che si occupa della deontologia sulla precarietà nel mondo giornalistico (sul tema consiglio la lettura della tesi di laurea della collega Chiara Baldi, Due euro al pezzo: inchiesta sul nuovo precariato giornalistico). Si iniziò a parlare di equo compenso ma poi finì tutto nel dimenticatoio. E infatti in dieci anni non è cambiato nulla. Il presidente dell’Odg, Carlo Verna, si è espresso un mese fa in commissione Giustizia sulla mancanza di un’equa retribuzione: “È una vergogna”. Le stesse parole del 2011: come dicevo, non è cambiato nulla.
Qualche dato. Su circa 35mila giornalisti attivi in Italia, quasi il 40% è freelance. Ciò significa che il reddito per quasi la metà degli autonomi (44,5% del totale) e dei parasubordinati (49,7% del totale) è inferiore ai 5mila euro lordi all’anno. Si attesta invece tra i 5 e i 20mila euro, per quanto riguarda gli autonomi, nel 34% dei casi e nel 35,3% per i parasubordinati. È compreso tra i 20 e i 75mila euro solo nel 17,4% dei casi per la prima categoria e nel 13% dei casi per la seconda. In più, i giornalisti attivi under 40 ricoprono il 26,8% del totale, mentre nel 2000 erano il 53,4%. Al contrario, la fascia 51-70 anni ricopre il 40,1%, mentre nel 2000 costituiva il 17% (dati: Osservatorio sul giornalismo, Agcom 2020).
Non so cosa ne pensiate, ma a me sembra abbastanza evidente che fare il giornalista sia diventata una professione per pochi fortunati. Se penso ad amici e conoscenti, conto sulle dita di una mano i colleghi che non vengono dalle scuole di giornalismo (la cui iscrizione costa migliaia di euro) che sono riusciti a strappare un contratto. Il paradosso è che chi entra in una redazione non ha alcuna esperienza di “giornalismo di strada”, perché viene prelevato direttamente dalle scuole.
Per tutti gli altri, nella maggior parte dei casi si tratta di sfruttamento. E lo sfruttamento impatta in modo negativo sulla qualità del giornalismo che viene offerto ai lettori: il giornalista si trova in una condizione di debolezza nei confronti della “controparte”, perché sottopagato e privo di tutele; in più, è costretto a rinunciare al diritto di critica e, più che sulla cura del proprio lavoro, deve puntare – per sopravvivere – sulla quantità.
Avrei più di un’idea su quello che si potrebbe fare per uscire da questo pantano. Quali sono le vostre?