Bisognava “domare il bestiame” e per questo è stata messa in atto una “orribile mattanza“. È il giudice per le indagini preliminare di Sana Maria Capua Vetere (Caserta) che conia una definizione da lager per quello che accadeva nel carcere della cittadina campana e per cui sono state emesse 52 misure cautelari (8 arresti in carcere, 18 arresti ai domiciliari, 3 obblighi di dimora e 23 interdizioni dall’esercizio del pubblico ufficio). Detenuti costretti a passare in un corridoio di agenti, con caschi e manganelli, fatti inginocchiare e colpiti di spalle per tutelare l’anonimato dei picchiatori per esempio. Violenza avvenute il 6 aprile in particolare dopo la rivolta dei detenuti per le misure anti Covid. Alcuni sono stati denudati e 15 anche portati in isolamento con modalità de tutto irregolari e senza alcuna legittimazione. Tra i detenuti in isolamento, stando alle indagini dei carabinieri di Caserta, uno perse la vita, il 4 maggio, quasi un mese dopo la perquisizione, per l’assunzione di un mix di oppiacei. In relazione a questa morte, è stato spiegato in una conferenza stampa, ritenendo quel gesto conseguenza delle torture, la Procura ha contestato il reato di morte come conseguenza di un altro reato (la tortura, appunto). Una impostazione non condivisa dal gip che invece ha ritenuto di classificare l’evento come suicidio.
L’ufficio inquirente guidato da Maria Antonietta Troncone (le indagini dei militari dell’Arma sono state coordinate del procuratore aggiunto Alessandro Milita e dai sostituti procuratori Daniela Pannone e Alessandra Pinto) aveva chiesto misure cautelari per 99 indagati ma il giudice, malgrado abbia riconosciuto la gravità indiziaria per 62 soggetti, ha ritenuto opportuno emettere 52 misure cautelari sulla base della sussistenza della pericolo di reiterazione del reato (sono quasi tutti in servizio). Nell’inchiesta, complessivamente, sono oltre 110 le persone indagate. Gli arresti riguardano quasi esclusivamente agenti del carcere di Santa Maria Capua Vetere: quella sera intervennero ben 283 poliziotti, un centinaio provenienti da Napoli Secondigliano, altri da un carcere dell’Avellinese. Di quelli provenienti da strutture penitenziarie diverse da quella casertana solo pochi sono stati riconosciuti dai detenuti (appena due, e sono di Secondigliano).
La rivolta era stata una sorta di sfregio. Per questo serviva “dare un segnale forte”, “un segnale minimo per riprendersi l’istituto” secondo il provveditore regionale delle carceri della Campania Antonio Fullone, al quale oggi è stata notificata una misura cautelare di sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio. Il funzionario è indagato per falso e depistaggio. Circostanza che emerge dall’analisi delle chat acquisite dai cellulari degli indagati. Proprio da questi messaggi emerge la volontà del provveditore di dare una connotazione particolare alle perquisizioni. Per gli inquirenti, infatti, il reale scopo delle perquisizioni, che vennero disposte dopo una protesta, era dimostrativo e preventivo. Una sorta di segnale per la Polizia Penitenziaria che nei giorni precedenti aveva chiesto una risposta ai disordini avvenuti nel reparto Nilo. Anche un detenuto sulla sedia a rotelle è stato preso a manganellate nel pomeriggio del 6 aprile 2020. Nelle immagini si vede l’uomo sulla sedia a rotelle, accompagnato dal proprio piantone: entrambi, nell’uscire dalla sezione, vengono seguiti per circa 5 metri da un agente in tuta antisommossa che li colpisce ripetutamente con un manganello. All’accaduto assistono altri due agenti.
“Domani chiave e piccone in mano, li abbattiamo con i vitelli. Domate il bestiame” scrivevano in chat alcuni degli agenti che hanno partecipato al pestaggio il 6 aprile 2020. Immediatamente dopo le 4 ore di violenze inflitte ai detenuti, gli stessi scrivevano messaggi esultanti: “Non si è salvato nessuno, abbiamo vinto, abbiamo ristabilito un po’ l’ordine e la disciplina”, ma anche “carcerati di merda, munnezza, dovrebbero crollare tutte le carceri italiane con loro dentro”. Qualcuno parla anche di “sistema Poggioreale”, sorta di cliché operativo che consisterebbe in plurime e gratuite percosse e lesioni da parte di un numero elevato di agenti di Polizia penitenziaria. Dopo l’acquisizione delle immagini registrate dall’impianto di videosorveglianza cresce invece la preoccupazione: “La vedo nera”, scriveva qualcuno, mentre c’è chi temeva di “pagare per tutti” o che “questa cosa del Nilo travolgerà tutti”, a dimostrazione, secondo la Procura, della consapevolezza delle conseguenze di quanto messo in atto nel Reparto Nilo.
Non ci sono solo le violenza. False accuse di resistenza e lesioni ai danni di 14 detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere sono state presentate da diversi ufficiali e agenti della Polizia penitenziaria che avevano redatto un’informativa di reato in relazione alle violenze avvenute nel carcere sammaritano il 6 aprile 2020. Nell’informativa si rappresentava la necessità, durante la “perquisizione straordinaria“, di aver dovuto operare “un contenimento attivo” delle persone denunciate, riferendo che “durante il contenimento attivo numerosi agenti avevano dovuto ricorrere alle cure dei sanitari”. Tutto falso secondo la Procura di Santa Maria Capua Vetere. Alcuni dei poliziotti indagati devono rispondere dei reati di calunnia, falso ideologico e depistaggio. Secondo gli investigatori, infatti, le lesioni riportate in referti medici non sono state procurate dai detenuti, ma sono risultate conseguenza delle violenze consumate dagli stessi agenti mediante pugni, schiaffi, calci e ginocchiate ai danni dei reclusi. 14 detenuti falsamente accusati, oltre alle violenze fisiche patite, sono stati sottoposti a un regime differenziato nel reparto Danubio, senza alcun adeguato trattamento sanitario. Per i reati di falso ideologico e calunnia aggravati sono state disposte misure cautelari nei confronti di 7 persone: il comandante dirigente della Polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere (arresti domiciliari), 4 coordinatori Sorveglianza generale (arresti domiciliari), un ispettore coordinatore del Reparto Nilo (custodia in carcere) e il comandante del Nucleo operativo Traduzioni e piantonamenti del Centro penitenziario di Napoli Secondigliano, comandante del “Gruppo di supporto agli interventi” creato alle dipendenze del provveditore regionale per la Campania (arresti domiciliari). False anche le fotografie che simulavano il ritrovamento, da parte degli agenti di Polizia penitenziaria, di strumenti atti ad offendere nelle celle dei detenuti, retrodatate per sostenere la falsa rappresentazione del loro utilizzo per azioni violente nel corso della perquisizione e giustificare così i pestaggi.
“È fondamentale si faccia piena luce e chiarezza su quanto avvenne nel carcere di Santa Maria Capua Vetere lo scorso 6 aprile 2020 che dalle denunce ricevute da Antigone sembrò trattarsi di una vera e propria rappresaglia contro i detenuti che avevano partecipato alle proteste dei giorni precedenti” dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’associazione che si batte per i diritti nelle carceri. Antigone, nei giorni immediatamente successivi ai fatti ricevette diverse lettere e telefonate da detenuti e famigliari. “Proprio in base a quelle testimonianze presentammo un esposto alla Procura contro gli agenti di polizia penitenziaria per ipotesi di tortura e percosse e contro i medici per ipotesi di omissione di referto, falso e favoreggiamento. Da questo esposto presero il via le indagini. Noi crediamo nella giustizia e rispettiamo il principio di presunzione di innocenza. Pertanto ci affidiamo alla magistratura“.
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