La rivolta dei genovesi contro l’accordo tra Cassa Depositi e Prestiti e i Benetton per le le Autostrade, era prevedibile. Quella della gestione della concessionaria da parte di Ponzano Veneto, è una “storia di incuria e di interessi privati, di top manager lasciati talvolta troppo liberi e di potentissimi investitori esteri, ma anche di sonnolenza dello Stato italiano e di errori tecnici occultati nei polverosi faldoni della burocrazia”, come riassume efficacemente Autostrade in frantumi (Rizzoli, 2021), ricordando che il crollo del Ponte Morandi ha squarciato un velo su una situazione che era da tempo andata oltre ogni limite, demolendo la reputazione di una delle famiglie più in vista d’Italia.
Il libro di Laura Galvagni, giornalista finanziaria del Sole 24 Ore con una profonda conoscenza delle infrastrutture italiane e dei loro proprietari, è uno strumento molto utile ai giorni nostri perché ha il pregio, tra il resto, di ricostruire in dettaglio, con precisione, ma anche con la chiarezza che lo rende comprensibile ai non addetti ai lavori, la privatizzazione delle Autostrade italiane, la parabola della famiglia Benetton e il suo rapporto con la concessionaria dal 2000 a oggi.
“Quando tutto era cominciato nel 1999, i presupposti erano differenti. Lo Stato italiano – per garantirsi finanziariamente alla vigilia dell’ingresso nell’Euro – privatizza uno degli asset fondamentali del Paese, cedendone il controllo alla famiglia Benetton, faccia bella e radiosa del nostro capitalismo: un impero costruito vestendo l’Italia, e non solo, di maglioni colorati”, si legge nel libro. “Un numero su tutti: all’inizio del 2000, la famiglia di Ponzano Veneto – grazie a un sistema di scatole societarie – rilevò il controllo della concessionaria investendo di capitale proprio appena 100 milioni di euro. Una briciola se si pensa che nel 2018, alla vigilia della tragedia di Genova, il gruppo Atlantia valeva in Borsa oltre 20 miliardi di euro, di cui più di 6 miliardi riferibili alla quota in mano ai Benetton. Una creazione di valore straordinaria che, tuttavia, è sempre stata accompagnata da numerosi interrogativi”, sintetizza Galvagni.
La privatizzazione, peraltro, era stata finanziata con i proventi di un’altra privatizzazione, come ricostruisce ancora la giornalista ricordando che a cavallo dell’operazione Autostrade, i Benetton avevano portato a casa circa 1 miliardo di euro di guadagno netto dalla vendita a Carrefour dei supermercati Gs, che avevano rilevato dalla Sme del gruppo pubblico Iri insieme a Leonardo Del Vecchio. Denaro che ha di fatto permesso di rimborsare il debito contratto per rilevare Autostrade. Lo stesso investimento nelle reti a pedaggio, poi, è stato recuperato nel giro di 9 anni. “Nel 2009 i Benetton avevano già completamente spesato l’ingresso nella concessionaria. Peraltro pur avendo inserito, nel mezzo, un’Offerta Pubblica di Acquisto che ha portato Treviso al controllo totale del gruppo autostradale italiano”, è la ricostruzione supportata da numeri su numeri.
Non è un caso che tre anni prima, a investimento quasi spesato, la famiglia avesse ceduto alla corte degli spagnoli di Abertis che nel 2006 arrivarono a un passo dall’acquisto delle autostrade italiane e furono fermati in zona Cesarini dalla politica che innescò un braccio di ferro per molti versi simile a quello che abbiamo osservato negli ultimi tre anni. “Era il 2007 ma, con le dovute proporzioni, sembra il 2020. Il cliché è sempre lo stesso. C’è il ministero delle Infrastrutture che punta a rimodulare il sistema tariffario, c’è Autostrade che promette maxi investimenti, c’è la politica che paragona con toni molto retorici la gestione della rete a un ‘albero della cuccagna‘, e c’è la minaccia di una revoca (o della decadenza della concessione) perennemente sullo sfondo”, nota Galvagni.
È qui che nasce la nuova convenzione che prevedeva sì un meccanismo tariffario più vantaggioso per il concessionario, ma attribuiva anche maggiori poteri di controllo per il concedente, lo Stato. Il quale “può visitare e assistere i lavori, eseguire prove, esperimenti, misurazioni, saggi e quanto altro necessario”, ma pure “‘provvede al controllo dell’attuazione del piano finanziario da parte del concessionario’ e per farlo può consultare la documentazione contabile, nonché le risultanze economiche, finanziarie e patrimoniali’ – ricorda la giornalista – Detto altrimenti, può avere accesso ai bilanci della concessionaria. Se non bastasse, l’ANAS (e negli ultimi anni il ministero delle Infrastrutture) esprime in Autostrade un membro del collegio sindacale, che in ogni società ha il compito di vigilare che le attività degli amministratori si svolgano nel rispetto della legge e dell’atto costitutivo”.
Un’opportunità che nessuno ha evidentemente pensato di cogliere se all’autrice non risulta, “da informazioni raccolte presso Aspi, che nessun ‘ispettore’ dello Stato abbia mai chiesto di presenziare ad alcuna verifica compiuta dagli ingegneri della Spea, la società di Autostrade a cui era demandato il controllo della rete”. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Mentre le Autostrade hanno portato agli azionisti numeri da capogiro: “i ricavi da pedaggi, che nell’arco di tempo considerato, quindi 2000-2019, sono stati complessivamente pari a 52 miliardi; gli investimenti, che nello stesso periodo sono risultati pari a 14,4 miliardi; e infine i dividendi, cioè gli utili distribuiti agli azionisti, che si sono attestati a 10,128 miliardi“.
In pratica, i dividendi valgono il 19,4% del giro d’affari, mentre gli investimenti pesano per il 27,7% del fatturato. “Cifre importanti ma che, se analizzate singolarmente, fanno comprendere ancora meglio quale sia stata l’involuzione del gruppo in termini di interventi sulla rete e quanto sia invece cresciuta nel tempo la remunerazione dei soci. È è come se il proprietario di un vasto patrimonio immobiliare messo a reddito, col passare degli anni, anziché ristrutturare o ammodernare appartamenti deperiti, destinasse in misura crescente gli affitti percepiti al proprio conto corrente. Non ci sarebbe da sorprendersi se un giorno un soffitto con una crepa di troppo crollasse sul tavolo della colazione, causando danni ben superiori a un po’ di calcestruzzo nel caffè”.