Decine di morti, ma la protesta non si ferma. Continuano le proteste contro le continue privatizzazioni del governo neoliberista, la corruzione e gli abusi di forze dell’ordine e paramilitari. E a favore dei servizi pubblici, dalla sanità all’istruzione. Ecco perché, nonostante la brutalità della risposta, le piazze non hanno smesso di riempirsi
Arresti arbitrari, omicidi, ferimenti, sparizioni forzate, stupri. Sembra un film dell’orrore, ma in Colombia è la realtà. Soprattutto da due mesi a questa parte. Dallo scorso 28 aprile, infatti, il Paese sudamericano è scosso da diffuse e imponenti manifestazioni, che il governo di Bogotà continua a reprimere nel sangue. Nonostante gli allarmi di Onu, Ue e svariate organizzazioni non governative. Da una parte un movimento variegato di studenti, lavoratori, attivisti sociali e politici di sinistra, che chiedono condizioni di vita più eque e sicure in un Paese martoriato non solo dal Covid-19 ma anche da crimini di Stato e disuguaglianze socioeconomiche sempre più marcate, dall’altra il governo di destra di Iván Duque, del partito Centro Democrático, che nonostante il ritiro della riforma fiscale da cui sono scaturite le mobilitazioni continua a crollare nei sondaggi. Proprio poche ore fa l’elicottero su cui viaggiava il presidente Duque – insieme ai ministri dell’Interno e della Difesa – ha subito un attacco con colpi di arma da fuoco: tutti illesi. Pochi giorni prima era esplosa un’autobomba contro una base militare a Cúcuta: 36 feriti.
Mattanza colombiana – Un clima avvelenato, che da 60 giorni ha assunto i caratteri di una vera e propria rivolta. Anche se le vittime sono quasi tutte tra i civili. Varie ong denunciano gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani, in particolare da parte di militari e agenti dell’Esmad (la squadra mobile antisommossa). Alle violenze contro i manifestanti partecipano anche paramilitari e privati. Un far west alla sudamericana. E tra le notizie sulle vittime – una di queste è il cantante e attivista sociale Junior Jein, ucciso poco prima di esibirsi in una discoteca di Cali – emergono dettagli macabri: da corpi gettati nel fiume a teste mozzate, come quella del giovanissimo Santiago Ochoa. Cinquantasei morti, di cui due poliziotti, secondo l’Onu. Ventiquattro secondo il governo colombiano, che contraddice l’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite Michelle Bachelet. Ottantatre per la rete Defender la Libertad, che denuncia anche 1677 feriti, 788 donne vittime di violenza da parte della polizia, 3203 arresti e 84 persone di cui si sono perse – tuttora – le tracce. Desaparecidos, come segnala gelidamente la procura generale.
Fiumi di sangue. E di cocaina, in un Paese stabilmente al primo posto nel mondo per la coltivazione di coca: nel 2020, secondo l’Ondcp (l’ufficio statunitense per il controllo della droga), la Colombia ha toccato le cifre record di 245mila ettari coltivati e 1.010 tonnellate prodotte. Senza contare la perenne guerra contro contadini, indigeni, ex guerriglieri e leader sociali, che nonostante gli accordi formali del 2016 continua a occupare la scena al posto della tanto agognata pace. Il tutto in un contesto di estrema preoccupazione dal punto di vista sanitario: con oltre 103mila vittime (e oltre 3 milioni di contagiati su un totale di 51 milioni di abitanti), la Colombia è il quarto paese latinoamericano per numero di morti in questa pandemia.
“El paro no para”. Dalla riforma fiscale allo sciopero permanente – Quando sono scoppiate le proteste di massa, due mesi fa, la situazione dei contagi era già particolarmente critica. Tanto è vero che lo slogan più popolare nelle piazze era “Se un popolo protesta e scende in piazza nel mezzo di una pandemia, vuol dire che il suo governo è più pericoloso di un virus”. Neanche a dirlo, la risposta del presidente Duque all’ulteriore aumento dei casi – oltre alla militarizzazione e alla criminalizzazione delle istanze popolari – è stata quella di puntare il dito contro scioperi e le manifestazioni. La miccia è stata il progetto di riforma fiscale, poi ritirato, attraverso il quale il governo di Bogotà intendeva fronteggiare la crisi dovuta alla pandemia con un ulteriore aggravio ai danni dei meno abbienti e della già martoriata classe media. Un progetto insostenibile, soprattutto in un Paese nel quale il 42,5% dei cittadini (circa 21 milioni) vive in povertà.
Ma al di là della reforma tributaria – che verrà ripresentata al Congresso il 20 luglio ma senza gravare sulle fasce più svantaggiate, ha promesso Duque – nelle piazze colombiane (soprattutto nella capitale Bogotà e a Cali) è scoppiato un enorme malcontento, da tempo latente. Contro le continue privatizzazioni del governo neoliberista (tra le misure contestate anche la riforma sanitaria e quella pensionistica), la corruzione e gli abusi di forze dell’ordine e paramilitari. E a favore dei servizi pubblici, dalla sanità all’istruzione. Fino alla depenalizzazione dell’aborto. Ecco perché, nonostante la brutalità della risposta, le piazze non hanno smesso di riempirsi, al grido di “El paro no para” (“Lo sciopero non si ferma”). E la popolarità di Duque, delfino di Álvaro Uribe Vélez, è scesa al 20%, secondo alcune rilevazioni. Una partita che interessa la classe politica anche in vista delle elezioni del 2022.
Non c’è pace – Ma per guardare al futuro la Colombia deve ancora fare i conti con il recente passato, fatto di oltre 50 anni di guerra civile. Nei giorni scorsi ha commosso l’incontro tra alcune vittime di rapimenti (in particolare Ingrid Betancourt, sequestrata nel 2002 e rilasciata nel 2008) e alcuni ex autori, membri delle allora Farc-Ep (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia-Ejército del pueblo). Un faccia a faccia simbolico, condito anche di lacrime e silenzi. Oggi Farc è la sigla di un partito (Fuerza alternativa revolucionaria del común). Ma la guerriglia continua con alcuni dissidenti che hanno ripreso in mano le armi, oltre che con l’Eln (Ejército de liberación nacional).
Per non parlare dei 6402 “falsi positivi” accertati dalla Jep (la Giurisdizione speciale per la pace), civili ammazzati tra il 2002 e il 2008 da militari in cambio di ricompense e avanzamenti di carriera. Attirati spesso con promesse di lavoro, i “falsi positivi” venivano trucidati e fatti passare per combattenti. Una vergogna di cui l’ex presidente Manuel Santos (ministro della Difesa dal 2006 al 2009, nel governo di Uribe, oltre che premio Nobel per la pace nel 2016) ha chiesto “perdono” pochi giorni fa. Eppure la mattanza non si è mai fermata: in Colombia ogni 41 ore viene ucciso un leader sociale. Quando arriverà davvero, la pace sarà la vera notizia.