Ilfattoquotidiano.it ha ripercorso le tappe salienti di questi decenni insieme a Edo Ronchi, che nel 1997, da ministro dell’Ambiente, ha firmato il protocollo di Kyoto. “Quel modello puntava a target vincolanti per tutti, è fallito perché ci ha portati a peccare di attendismo e perché sono state sottovalutate la gravità della crisi climatica e la rapidità con cui peggiorava"
Dal primo Summit sulla terra a Rio de Janeiro al Protocollo di Kyoto, dagli Accordi di Parigi alla Cop 25 di Madrid. Ultima, ma non unica, delusione in quasi trent’anni di vertici mondiali, scanditi anche dalle Conferenze delle parti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, le Cop. Veti incrociati, abbandoni, promesse disattese, obiettivi mancati, mentre le emissioni globali di gas serra aumentavano e l’emergenza climatica diventava crisi. L’ultima promessa a margine del G7 in Cornovaglia. “Faremo tutto il possibile per attenerci a 1,5° (di aumento della temperatura rispetto ai livelli pre industriali, ndr)” ha scritto su Twitter la presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen. Lecito chiedersi se siamo di fronte a un altro fallimento e quali sono stati gli errori del passato (perché è la scienza a dirci che abbiamo sbagliato). Ilfattoquotidiano.it ha ripercorso le tappe salienti di questi decenni insieme a Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile che nel 1997, da ministro dell’Ambiente, ha firmato il protocollo di Kyoto. “Quel modello puntava a target vincolanti per tutti, è fallito perché ci ha portati a peccare di attendismo e perché sono state sottovalutate la gravità della crisi climatica e la rapidità con cui peggiorava, soprattutto in Paesi vulnerabili come l’Italia” spiega Ronchi, secondo cui “oggi si punta sul dinamismo competitivo di alcune potenze, soprattutto in Europa e Stati Uniti, che potrebbero costringere altri Paesi a stare al passo”. La prossima Cop è in autunno e l’esito non potrà che dipendere da quello che sta avvenendo in Europa, dove il Parlamento ha appena approvato la legge sul clima, frutto di un accordo di compromesso con il Consiglio Ue. Molte questioni, però, sono rimandante al pacchetto di proposte che la Commissione presenterà a metà luglio, il Fit for 55 Package. Ci siamo arrivati dopo quasi trent’anni e non possiamo più sbagliare: “Finora i risultati sono stati scarsi, avremmo potuto fare meglio, ma i vertici sono serviti a costruire un dialogo”.
LO STORICO SUMMIT SULLA TERRA – Il primo Summit sulla Terra si tiene in Brasile nel 1992: presenti 154 nazioni. Si firma la Convezione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) e da allora ogni anno le parti firmatarie si incontrano alla Cop. L’Unfccc riconosce ‘responsabilità comuni ma differenziate’: i Paesi industrializzati si impegnano a raggiungere target (non vincolanti) per ridurre le concentrazioni di gas serra, stabilizzandole entro il 2000 ai livelli del 1990. Ognuno avrebbe avuto una certa quantità di crediti di carbonio (ciascuno corrispondente a una tonnellata di Co2 equivalente). “Per aiutarli a rispettare gli impegni – spiega Ronchi – si introducono tre meccanismi flessibili” da sempre molto discussi. Dato che è più conveniente investire in progetti di riduzione nei Paesi in via di sviluppo e dell’Europa centrale ed orientale, la Joint Implementation consente ai Paesi industrializzati e ad economia in transizione di realizzare progetti in altri paesi con vincoli di emissione e il Meccanismo per uno sviluppo pulito di investire nei Paesi in via di sviluppo per poi scontare le quantità ridotte dal proprio impegno. Con l’Emission Trading, i Paesi che raggiungono l’obiettivo di riduzione vendono i loro crediti a quelli che non lo fanno e che pagano il diritto a inquinare di più. In pratica si dà la possibilità ai Paesi che più emettono di non tagliare drasticamente le proprie emissioni.
IL PROTOCOLLO DI KYOTO – “Questi difetti entrano nel Protocollo di Kyoto, strumento debole e scarsamente efficace, tanto che le emissioni globali continuano a crescere” racconta Ronchi. L’errore principale? “Sottovalutare la dinamica della crisi climatica e il ruolo della Cina, che ancora mantiene un impegno differenziato alla stregua dei Paesi in via di sviluppo, nonostante sia una superpotenza con emissioni pro capire superiori a quelle dell’Ue, ma ancora inferiori a quelle degli Usa”. Il protocollo, del 1997, è il primo trattato che obbliga i Paesi industrializzati (Ue, Usa, Giappone e Canada) a ridurre tra il 2008 (a 11 anni dalla Cop 3) e il 2012, le emissioni di sei gas serra di almeno il 5,2%, in media, rispetto al 1990. Obiettivo Ue è l’8%. “Solo nel Protocollo di Kyoto c’è un target vincolante, ma si fa per dire: lo raggiunge solo l’Ue (non l’Italia, ndr), mentre la Cina aumenta di molto le emissioni. Quelle globali crescono di oltre il 20%” spiega Ronchi. Per l’entrata in vigore, poi, bisognerà aspettare la ratifica di 55 Stati responsabili di almeno il 55% delle emissioni (doppio quorum). Accade 8 anni dopo. E se Bill Clinton, fino al 2001 presidente Usa (allora responsabili di oltre il 36% delle emissioni) firma il protocollo spinto dal suo vice Al Gore, poco dopo il suo insediamento, George W.Bush ritira l’adesione, con l’alibi che gli impegni riguardano soli i Paesi sviluppati. Il Canada ne uscirà nel 2011.
DALLA ROTTURA DELL’AJA ALL’ERA OBAMA – Alla Cop 6 del 2000 all’Aja (Paesi Bassi) il dialogo si interrompe per contrasti tra Ue e Usa sulle misure per gli Stati inadempienti, gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo, il limite al ricorso dei ‘meccanismi flessibili’ e la proposta Usa di ottenere crediti dai pozzi di assorbimento di carbonio, come le foreste. La Cop riprende mesi dopo in Germania, ma gli Usa (ormai usciti dal protocollo) partecipano come ‘osservatori’. Alla Cop 15 di Copenaghen del 2009, era Obama, non si riescono a firmare impegni post 2012. L’Ue accetta un accordo scritto da Usa e Cina (né vincolante né operativo) che coinvolge anche Brasile, India e Sudafrica. Si inserisce l’obiettivo di contenere entro i 2° il riscaldamento globale e si raggiunge l’intesa sui finanziamenti ai Paesi più poveri (30 miliardi di dollari fino al 2012 e 100 dal 2020). La Cop 18 in Qatar estende al 2020 il Protocollo di Kyoto: firmano solo Ue, Australia, Svizzera e Norvegia (responsabili insieme di meno del 20% delle emissioni).
L’ACCORDO DI PARIGI – Alla Cop 21 del 2015 negoziano i rappresentanti di 196 Stati. “Non si punta più a un accordo di riduzione con target vincolanti (anche se c’è un obiettivo collettivo del 40% in meno rispetto al 1990, ndr) ma a rimanere sotto i 2° di riscaldamento, preferibilmente 1,5°” commenta Ronchi. Volontari i target che i singoli Paesi si fissano con gli Indc (Intended Nationally Determined Contributions), poi Ndc (Nationally Determined Contributions), soggetti a revisione ogni 5 anni. Non ci sono quelli degli Usa di Trump (usciti dall’accordo come nel più classico dei déjà vu), mentre la Cina dichiara che non ridurrà le emissioni prima del 2030, per poi promettere nel 2020 la neutralità climatica entro il 2060. “A Parigi – spiega Ronchi – si sceglie di non aspettare un’intesa unanime e procedere con impegni nazionali, che però dipendono dalle politiche dei singoli Paesi”. Non sono previste sanzioni. Morale: secondo l’Unef con quei contributi si otterrebbe il taglio di un terzo del necessario per rimanere sotto 1,5° (oltre i quali c’è il disastro avverte l’Ipcc, Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), arrivando persino a superare i 3°. Da qui l’aggiornamento del target Ue dal 40 al 55% “che vale per i Paesi Ue”. E chi non fa la sua parte, paga? “No. Esiste un complicato meccanismo di verifica, nulla di vincolante sugli impegni dei singolo Paesi”.
LA DINAMICA DELLA COMPETIZIONE – Per non parlare di ciò che avviene fuori dall’Ue, come dimostrato dal fallimento della Cop di Madrid nel 2019, descritta come l’ennesimo carrozzone di delegati, politici, lobbisti, ambientalisti dove è sempre più difficile trovare un’intesa. “Madrid segna la fine del modello Kyoto e dell’idea di target vincolanti per tutti, che non ha funzionato neanche per i Paesi industrializzati” commenta Ronchi. Anche nella legge europea sul clima, gli obiettivi sono dell’Ue nel suo complesso e non dei singoli Stati, come avrebbe voluto l’Europarlamento. Quale fase si è aperta, allora? “La dinamica della competizione, chi può deve fare subito: Stati, territori, imprese, cittadini. Negli Usa, durante l’era Trump, diversi Stati e città si sono mossi autonomamente, consentendo un generale lieve calo delle emissioni”. In Europa che dobbiamo fare? “Accelerare la transizione, triplicando la velocità dell’ultimo decennio. Non è facile, ma si può – spiega Ronchi – grazie ai costi raggiunti dalle rinnovabili e agli effetti dell’evoluzione tecnologica su digitalizzazione ed economia circolare”. Le emissioni dell’Ue si sono ridotte del 24% tra il 1990 e il 2019 e in Italia del 18-19%. C’è voluto tempo, troppo. “Siamo in ritardo – aggiunge – ma è alla portata dell’Italia passare da 1 a 6 gigawatt all’anno di rinnovabili elettriche e raggiungere in tempi rapidi dal 40 al 70% di elettricità prodotta con fonti rinnovabili. L’Ue non può più sperare in un accordo unanime che non arriverà mai”.
IL G7 E IL RUOLO DELL’EUROPA – Questo complica le cose: secondo l’Unep, per rimanere sotto quell’1,5°, entro il 2030 dobbiamo ridurre le emissioni globali di 15-17 miliardi di tonnellate e arrivare a 36 miliardi l’anno. “Se non si muovono in sintonia Usa ed Ue sarà impossibile. Insieme – aggiunge l’ex ministro – conquisterebbero un vantaggio competitivo, costringendo la Cina a seguirle”. In Cornovaglia, il gruppo dei 7 (Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito, Usa e Canada), per far rientrare anche i Paesi non Ue, si è impegnato a tagliare le emissioni del 50% entro il 2030 (ma rispetto ai livelli del 2010). Un accordo al ribasso, rispetto alla legge sul clima con cui l’Ue punta al 55% (già poco ambizioso) rispetto, però, al 1990. Per gli Usa, corrisponderebbe a -41%. “Oltre all’inversione di tendenza – replica Ronchi – va considerato che gli Usa hanno emissioni pro capite che superano le 12 tonnellate di Co2 all’anno, doppie rispetto all’Ue”. Ma l’Unione europea sta davvero facendo la sua parte? “Avrei spinto di più sul taglio (lo stesso Europarlamento puntava al 60%) e sui sotto-obiettivi, che ancora non ci sono, mentre c’è urgenza di sapere i target su rinnovabili ed efficienza energetica”. In queste settimane l’Ue si gioca molto in termini di credibilità. Dopo l’approvazione della legge sul clima, a metà luglio la Commissione proporrà un pacchetto con 12 proposte (dal sistema di scambio di quote di emissione, l’Ets in vigore, al regolamento sulla condivisione degli sforzi) su cui inizierà la discussione tra Consiglio e Parlamento. Un percorso dal quale dipenderà anche l’esito della prossima Cop. Gli eventi preparatori a Milano tra settembre e ottobre, la Cop 26 sarà a Glasgow (Regno Unito) a novembre 2021. Dopo quasi 30 anni di vertici, saprà di resa dei conti. Anche per l’Europa.