“Building resilient supply chains, revitalizing american manufacturing, and fostering broad-based growth” è, alla fine, un documento più politico che economico che invoca il ritorno di una seria politica industriale negli Stati Uniti. Il rapporto di 250 pagine prodotto dalla Casa Bianca su richiesta del presidente Joe Biden, descrive ed esamina le filiere produttive internazionali su cui è impostata oggi la manifattura globale e statunitense in particolare. Il passo successivo è quello di individuare le vulnerabilità che discendono dall’assetto descritto in settori chiave come i semiconduttori, la farmaceutica o la difesa. Terzo punto, l’individuazione di soluzioni per tentare di correggere o almeno ridimensionare i problemi evidenziati. Il tutto è funzionale all’ ampia strategia statunitense orientata, in modo assolutamente bi partisan, verso uno scontro a lungo termine con Pechino, con una delle battaglie principali che si giocherà nel campo del primato tecnologico.
“Catene di approvvigionamenti sicure e resilienti sono fondamentali per la nostra sicurezza nazionale, la nostra economia, e la nostra leadership tecnologica”, esordisce il rapporto. Il grande rompicapo è come far coesistere questa necessità, con filiere produttive sempre più internazionalizzate. Alcune delle quali vedono Cina e Stati Uniti, strettamente interconnessi. Il caso del momento è quello dei semiconduttori, di cui si registra una grave carenza a livello globale. Le ragioni sono molteplici, rallentamenti della produzione dovuti alla pandemia, boom della richiesta di pc e apparecchiature elettroniche per lavorare da remoto, ripresa della produzione di automobili più veloce rispetto alle attese (una vettura di nuova concezione ne monta almeno un centinaio). Oggi le industrie statunitensi producono appena il 12% dell’offerta globale di chips (negli anni 90 superavano il 37%, ndr) e sono specializzate nella “parte alta” della filiera, ovvero nella progettazione e nel design dei circuiti. La costruzione avviene altrove, principalmente a Taiwan e Corea del Sud, dove si producono materialmente ben più della metà dei chips usati nel mondo. L’assemblaggio sulle apparecchiature avviene poi in gran parte in Cina che rappresenta anche il primo mercato globale di semiconduttori, quindi non solo venditore ma anche acquirente. Il rapporto evidenzia quindi qui un primo paradosso. Colpire Pechino con sanzioni, riducendo la domanda locale di chips, avrebbe conseguenze gravi sulle aziende statunitensi del settore, affossandone la capacità di sviluppo e investimento e compromettendo ulteriormente il ruolo degli Usa.
L’invito ai politici statunitense è di investire almeno 50 miliardi di dollari per la costruzione di stabilimenti avanzati di semiconduttori e di memorie. Inoltre si invocano incentivi per lo sviluppo della produzione domestica di auto elettriche (il mercato Usa è molto in ritardo rispetto a Europa e Cina, ndr) oltre a uno stanziamento da 15 miliardi di dollari per l’infrastrutturazione delle colonnine di ricarica, oltre ad aiuti alle piccole e medie imprese di settori strategici. Curioso come Washington rimproveri Pechino di distorcere il mercato attraverso investimenti pubblici e sussidi alle imprese locali e poi proponga sostanzialmente gli stessi interventi.
In parte legato a quello dei componenti elettronici è il tema delle cosiddette terre rare (non sempre lo sono davvero, ndr) come nickel, litio, cobalto usate nella produzione di circuiti integrati, batterie elettriche, pannelli fotovoltaici. Nei prossimi 30 anni la domanda di litio dovrebbe crescere del 4000%, quella di grafite del 2500%, anche in conseguenza della transizione verso l’elettrificazione, imposta dalle strategie di riduzione delle emissioni di Co2. Qui il dominio della Cina è netto. Pechino controlla il 54% dell’estrazione e l’85% della lavorazione delle terre rare. Sia perché ha investito nella ricerca e sviluppo di giacimenti domestici, sia perché è ben radicata in paesi africani come la Repubblica Democratica del Congo, nelle cui miniere si trova la quasi totalità del cobalto presente sul pianeta. Il Pentagono ha stimato che per 38 minerali il tasso di dipendenza degli Usa è del 75%, in 19 casi il primo fornitore è la Cina. L’esercito statunitense non è in grado di fornire soluzioni, se non un maggior ricorso al riciclo e all’accumulazione di scorte. Non potendo sperare di trovarsi questi minerali “in casa”, il rapporto propone di introdurre e rafforzare standard internazionali di sostenibilità ambientale e sociale per i siti in cui vengono estratti materiali essenziali. Il documento lamenta infine anche la mancanza di offerte formative di alto livello nelle università statunitense per quel che concerne il settore. Difficile però capire perché uno studente dovrebbe iscriversi a corsi per lavori che negli Stati Uniti sono pressoché scomparsi.
Sul fronte della farmaceutica la situazione è simile a quella dei semiconduttori. La ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci avviene spesso negli Usa ma poi la fabbricazione di farmaci e avviene per lo più in India. La collaborazione tra pubblico e privato, sottolinea lo studio, ha evidenziato una grande capacità di far fronte all’emergenza Covid sviluppando rapidamente i vaccini e la capacità di produrli. Ma la carenza di medicinali di altra natura non è rara negli Usa e può diventare fattore di criticità. Lo studio invita quindi gli Stati Uniti a mantenere attiva una capacità produttiva di riserva e di emergenza. Linee che possono restare inutilizzate in circostanze normali, ma che dovrebbero poter essere rapidamente attivate in caso di necessità. Più in generale il rapporto è una “chiamata alle armi” per politici e imprenditori a stelle e strisce per rafforzare la costituzione di un indebolito apparato industriale domestico. Servono soldi, servono strategie, serve volontà. Probabilmente ci si è spinti troppo in là lungo la strada dell’internazionalizzazione se si vuole un assetto economico compatibile con le aspirazioni geopolitiche della principale potenza globale. Servono contromisure, oppure è meglio scordarsi sanzioni e guerre commerciali che vadano oltre il simbolico.