Dall'inferno al paradiso, quella rimonta subita dalla Croazia poteva rappresentare il canto del cigno dell'allenatore asturiano con la Roja e si è invece trasformata nell'affermazione delle sue convinzioni. Ha escluso tutti i madridisti, ha preso decisioni tecniche che hanno provocato accese discussioni, tutto in nome di quell'equilibrio calcistico che è la stella polare con la quale si orienta per portare avanti il suo modo di intendere il calcio
La telecamera indugia da qualche secondo sull’uomo seduto in panchina. Anche perché la scena assume improvvisamente tratti surreali. Fermo immobile al centro dello schermo c’è Luis Enrique. Ha le gambe incrociate e il corpo fasciato da una camicia bianca. Ma ha soprattutto la testa inclinata verso il basso, come a puntare il terreno. Eppure nessuno riesce a scorgere la sua faccia. Perché fra le mani stringe una bottiglietta di acqua vuota. E se la porta sulla fronte per coprirsi gli occhi. È un gesto ingenuo, quasi fanciullesco. Ma serve a nascondere una visione orrorosa.
Qualche metro più il là la Croazia sta esultando. Ha appena segnato, ma non ha neanche tirato in porta. A un certo punto Pedri ha passato indietro verso l’estremo difensore. Che ha mancato lo stop. Così il pallone è rotolato indisturbato in fondo al sacco. È una rete grottesca, uno svarione insensato che rischia di diventare un macigno. Per la Spagna. Ma ancor più per il suo commissario tecnico. Qualche tempo fa Luis Enrique si era presentato davanti alle telecamere e aveva pronunciato il suo giuramento: “Il titolare è e sarà David De Gea. Il dibattito è soltanto vostro”.
Solo che poi aveva pensato di dare una possibilità a Kepa. Solo che poi aveva schierato Unai Simón. Un colpo di spugna sul passato che diventa fotografia del presente, che racconta alla perfezione un uomo dal carattere intricato e sfaccettato. Luis Enrique non è incoerente, rivendica il suo diritto a poter cambiare opinione. Senza doverlo necessariamente comunicare agli altri. È un uomo che racchiude dualità a prima vista inconciliabili. Fin dagli inizi come calciatore. Dopo l’esordio con il “suo” Sporting Gijón, a 21 anni si trasferisce al Real Madrid. Un sogno per chiunque. Tranne che per lui. La scintilla non scocca. Mai. Né con i tifosi, né con la dirigenza. Nel 1996 il suo contratto va in scadenza. Ma nessuno si premura di rinnovarlo.
Così Luis Enrique passa al Barcellona. Gratuitamente. L’immedesimazione fra lui e i valori del club diventa pressoché totale. Al Camp Nou incontra un centrocampista di 25 anni che ha una visione di gioco e del gioco fuori dal comune. Si chiama Pep Guardiola ed è già uno dei pilastri della squadra. Fra i due non nasce un’amicizia, ma una fratellanza. Dopo gli allenamenti si fermano a parlare di calcio negli spogliatoi. Per ore intere. Giorno dopo giorno dopo giorno. Elaborano una visione comune, integrano le proprie idee, redigono un personalissimo vangelo. Tanto che qualche anno dopo un club che gioca nella Liga offre la panchina a Luis Enrique. L’asturiano accetta, ma a una condizione: il suo vice deve essere Guardiola. Sembra tutto fatto, ma l’affare svanisce.
Il futuro prende una strada diversa, più tortuosa, meno asfaltata. Barcellona diventa un punto di partenza, di transito e di arrivo. Quando Pep viene promosso in prima squadra, Luis Enrique lo sostituisce al Barcellona B. La sovrapposizione fra lui e il Barça è completa. Nel calcio, nella cultura, nella politica. Qualche anno più tardi rilascia un’intervista a un giornalista che segue il ciclismo. Durante la chiacchierata pronuncia due frasi che sembrano inconciliabili: “In generale i catalani sono molto più avanti degli spagnoli”. E poi: “Mi piacerebbe essere il commissario tecnico della Spagna”.
Luis Enrique viene accusato di contraddittorietà. Ma è l’esatto contrario. Quelle due affermazioni, per lui, sono vere entrambe, quindi possono coesistere tranquillamente. L’uomo di Gijón è un personaggio molto complesso. Sfugge alle chiavi interpretative, non è decriptabile grazie all’uso di stereotipi. E per questo diventa divisivo. Con lui non ci sono sfumature. Qualcuno lo beatifica, altri lo demonizzano. Senza possibilità di appello. Va avanti per assoluti, trasforma le idee in totem intorno ai quali danzare. Tutto è sacrificabile, tranne una serie di principi base che disciplinano lo stare insieme dentro e fuori dal campo, che trasformano il gruppo in squadra.
Quando Luis Enrique allena la Roma, De Rossi arriva con un minuto di ritardo alla riunione tecnica. Nella partita successiva si accomoda in tribuna. È una scelta sofferta, contestata e contestabile. Ma serve ad affermare che i calciatori sono tutti uguali. E che vengono solo dopo i principi. È nella Capitale che Luis Enrique introduce un altro tema che lo accompagnerà per tutta la carriera. Sembra che per costruire debba prima radere al suolo. La sua regola benedettina è trabajo y sudor. La fatica diventa pietra fondante del bene comune. L’allenamento è la premessa della prestazione della domenica. Per questo chi ha poco lavoro nelle gambe non gioca. Punto. Vale per tutti. Anche per le leggende in carne e ossa.
Ad agosto la Roma gioca il preliminare di Europa League contro il modesto Slovan Bratislava. Luis Enrique manda in campo Okaka al posto di Totti. E i giallorossi vengono eliminati. Per qualcuno il disegno è chiaro: l’allenatore vuole fare fuori il capitano, vuole accantonare la romanità per costruire una squadra a sua immagine e somiglianza. È una suggestione che trasforma lo spagnolo in macchietta. E che pian piano diventa una verità di granito, un vetro antiproiettile che non può essere scalfito da nessuna spiegazione. “L’ho fatto perché Totti si è potuto allenare poco in settimana”, spiega a un giornalista. “Ma non lo sai che Totti da fermo è meglio di Okaka che corre?”, lo incalza il cronista. “E se Totti, stanco, si faceva male?”, chiude Lucho.
Roma lo osserva tramite una lente fatta di scetticismo. È la puntata pilota di una serie che avrà un numero discreto di episodi. Perché l’altro grande assunto su Luis Enrique riguarda la frequenza delle sue frizioni con gli uomini più rappresentativi dello spogliatoio. Totti a Roma, Messi a Barcellona, Jordi Alba in Nazionale. Lo spagnolo è un generatore di sentimenti contrastanti, è un uomo che non lascia indifferenti. Avere a che fare con lui comporta una scelta, vuol dire decidere se inserire il suo nome nella lista degli amici o in quella dei nemici. Vie di mezzo non sono contemplate. Quando Guardiola annuncia il suo addio al Barça all’Olimpico compare uno striscione. C’è scritto: “Luis, vattene da Roma. S’è liberato il posto al Barcellona”.
L’asturiano seguirà il consiglio. Dopo un anno al Celta Vigo si siede sulla panchina blaugrana. Vincerà tutto. Ma a modo suo. Creando tempeste, sfiorando l’esonero, centrando in due settimane la peggiore sconfitta (4-0 in casa del Psg) e la più clamorosa rimonta (6-1 nella sfida di ritorno) nella storia recente del club. Qualcuno lo reputava un clone di Pep, altri semplicemente la sua versione economica. Solo che al Barcellona prima e con la Spagna poi, Luis Enrique deve fare i conti con una realtà che nessuno ha voglia di ammettere: la generazione del tiki taka, il Barcellona quantistico di Guardiola descritto da Sandro Modeo, si sta spegnendo. Serve altro. Serve più verticalità a un movimento calcistico che ha usato la circolazione orizzontale come strumento di offesa e di autodifesa.
Il problema delle grandi rivoluzioni è che prima o poi sono destinate ad affievolire la loro carica, a ghigliottinare i discendenti del ghigliottinatore. Luis Enrique si è trovato a mettere insieme i resti di una generazione che ha cambiato il calcio mondiale. E ha rischiato di restare scottato. Al resto ci ha pensato il suo carattere. Il suo addio alla Nazionale nel 2019 è stato spiazzante. Perché avvenuto nel riserbo più totale. E oggi non c’è niente di più imperdonabile del non figurare. L’eccesso di riservatezza ha trasformato Luis Enrique nello Stan Laurel di Soriano, quello che parlando di sé dice: “Sono un uomo famoso che nessuno conosce”.
Qualcuno accusa l’allenatore di essere una testa calda, uno alla costante ricerca del colpo di teatro. Cinque mesi più tardi si capisce che alla base del suo passo indietro c’era un dilaniante dolore familiare. In quel momento, per la prima volta nella sua carriera, Luis Enrique ha sentito davvero una vicinanza incondizionata nei suoi confronti. Quell’assenza forzata non lo cambia. Ma cambia la percezione che gli altri hanno di lui. È quel verso di Cesare Pavese che dice: “Ho trovato compagni trovando me stesso”. Matura un credito di simpatia che dilapiderà poco dopo.
Quando torna sulla panchina della Spagna fa fuori Robert Moreno, il suo storico vice, l’amico che gli aveva tenuto in caldo la panchina. I toni diventano shakespeariani. Luis lo accusa di essere stato sleale, di aver provato a trasformare quel contratto a progetto in uno a tempo indeterminato. “Non sono il buono dei film, ma neanche il cattivo”, dirà l’asturiano. Parole che ricordano quelle pronunciate da Amleto: “Devo essere crudele solo per essere buono”.
L’avvicinamento all’Europeo è stata una passeggiata verso il Golgota per Luis Enrique. In Spagna gli hanno rinfacciato di non aver convocato capitan Sergio Ramos (cinque presenze con il Real Madrid in tutto il 2021), poi hanno tirato fuori le sue dualità. Lo hanno accusato di essere troppo vicino al Barcellona, gli hanno rimproverato un generico spirito antimadridista, visto che per la prima volta nessun calciatore delle meringhe vestiva la maglia della Roja. E poco importa se gli esclusi si chiamano Nacho, Carvajal (alle prese con un infortunio muscolare), Isco e Asensio. Le critiche sono diventate colpi di artiglieria. Munizioni sparate ogni giorno. Contro Luis Enrique. Contro la Spagna stessa. Qualcuno ha derubricato la sua scelta di portare 24 calciatori e non 26 a semplice mania di protagonismo.
La Nazione si è divisa. Secondo Marca una fetta consistente di spagnoli avrebbe addirittura iniziato a tifare contro la squadra pur di trasformare l’allenatore in un santo decollato. Poi ieri è arrivato quel controllo di palla grottesco di Unai Simón, è arrivato quell’autogol, è arrivata quella bottiglietta d’acqua davanti agli occhi di Luis Enrique. E la storia potrebbe essere cambiata. La Spagna ha rimontato se stessa, ha battuto la Croazia grazie alle scelte di Luis Enrique. E anche grazie a Morata, l’attaccante che aveva ricevuto minacce di morte e che era stato difeso a oltranza dal suo allenatore. Un uomo sfuggente e a volte impenetrabile che è riuscito a zittire tutte le voci sul suo conto. Almeno fino alla prossima partita.