Pochi calciatori si prestano alla narrazione più di Zlatan Ibrahimovic. Quest’anno in Italia usciranno tre libri dedicati al campione svedese, già protagonista di un’autobiografia, ormai un po’ vecchiotta, che ha fatto sfracelli a livello di vendite. Poco importa, perché l’hype che riesce ancora a generare a 39 anni rimane enorme, e può finire con il depotenziare realtà che non appartengono al suo livello. Come quella della nazionale svedese. Cosa abbia rappresentato Ibra per il calcio del proprio Paese, sotto ogni profilo (sportivo, sociale, iconico, mediatico) è noto a tutti. È inutile scavare nel passato per cercare tra i campioni che hanno vestito il Blågult (giallo-blu) qualsiasi termine di paragone. Sarebbe un esercizio privo di senso e, a ogni modo, di Ibrahimovic ce n’è uno solo. A livello di immagine, nel rapporto con la Svezia, Zlatan è una stella che emette una luminosità da supernova e, al contempo, concentra su di sé ogni attenzione, come un buco nero che attrae e cattura tutto ciò che gli gravita attorno, sia essa materia o radiazione elettromagnetica. Non è quindi un caso che la selezione scandinava, senza di lui, abbia raccolto a livello internazionale i suoi migliori risultati degli ultimi trent’anni.
Nel giugno 2016 la Svezia usciva dagli Europei dopo una sconfitta contro il Belgio che la relegò all’ultimo posto del proprio gruppo. Fu l’ultimo atto di Ibrahimovic con la sua nazionale, con un ritiro già annunciato prima del torneo. Un anno e mezzo dopo, la Svezia superò l’Italia nel play-off di qualificazione ai Mondiali di Russia: non batteva gli Azzurri in un match ufficiale dal 1987, quando sulla panchina italiana sedeva Azeglio Vicini e con gli scandinavi giocavano Strömberg, Prytz e Ravelli. In quella Coppa del mondo gli uomini di Janne Andersson si spinsero fino ai quarti di finale, la miglior prestazione dai tempi del terzo posto di Usa ’94. Nell’attuale Europeo, prima di uscire all’ultimo minuto degli ottavi per mano dell’Ucraina, hanno vinto il proprio gruppo eguagliando il numero massimo di vittorie (due) ottenute in una fase finale della coppa continentale, che risaliva sempre agli anni ’90 (per la precisione al 1992, quando la Svezia finì terza, eliminata in semifinale dalla Germania).
La Svezia non è una nazionale più forte senza Ibrahimovic, né senza di lui gioca meglio, ammesso che il concetto di bel gioco sia contemplato dal pragmatismo tattico del ct Andersson. Ma la Svezia può fare a meno di Ibrahimovic, lo ha dimostrato e continua a farlo. L’assenza di un giocatore-personaggio così ingombrante ha innescato un duplice processo. Il primo è di natura squisitamente tattica: Ibrahimovic è un accentratore del gioco, vuole la palla tra i piedi, la tiene molto, ma il suo approccio è esattamente l’opposto di quanto costruito da Andersson in questi ultimi anni, con la Svezia che si chiude per poi ripartire, lasciando il possesso all’avversario e colpendo con rapidi break, come quelli di Emil Forsberg nel match contro la Polonia. Tra Andersson e Ibra, del resto, non c’è mai stato grande feeling. Il tecnico chiuse la strada al possibile rientro del giocatore per i Mondiali 2018, Zlatan ha replicato criticando le sue scelte, prima di un riavvicinamento tra le parti nei mesi precedenti a Euro 2020, con Ibrahimovic che ha invitato il c.t. a Milano per discutere del suo ritorno in Nazionale, avvenuto lo scorso 25 marzo. Non è dato sapere se – al di là delle dichiarazioni di facciata – il successivo infortunio del milanista abbia gettato Andersson nello stesso stato di disperazione nel quale sono caduti i media svedesi.
Il secondo effetto – ancora più significativo – è che senza Ibra il gruppo, sia quello precedente che quello attuale, si è cementato, perché ognuno è stato costretto a dare il meglio di sé, a sentirsi leader. La sua assenza ha responsabilizzato i giocatori. Senza l’ombra del campione a coprire ogni cosa, nel bene ma anche nel male (quante volte in passato i deludenti tornei della Svezia sono stati imputati a un Ibrahimovic che “non ha saputo fare la differenza”?), gli svedesi hanno dovuto dare qualcosa di più. Una forza mentale che si è vista soprattutto nei momenti importanti: la nazionale scandinava è stata deludente alla Nations League, ma nei grandi tornei ha mantenuto le aspettative. Due parole sui giocatori: nel 2018 Forsberg ha mandato i suoi ai quarti di finale decidendo il match contro la Svizzera, mentre a Euro 2020 ha chiuso con quattro gol, portandosi a una sola rete di distanza da quelle segnate da Ibra nei grandi tornei; Alexander Isak e Dejan Kulusevski invece hanno dimostrato di essere giocatori affidabili e, al netto di qualche ingenuità, rappresentano un cospicuo tesoretto per l’imminente ricambio generazionale che caratterizzerà la nazionale.
Ibrahimovic avrebbe indubbiamente fagocitato tutto, perché i suoi compagni di squadra non hanno la stessa qualità dei portoghesi attorno a Cristiano Ronaldo, mentre con Gareth Bale e il suo Galles non esiste paragone a livello di impatto mediatico (e non solo). È curioso notare come all’auto-rappresentazione “alla dottor Manhattan” che Zlatan offre di sé stesso, ovvero un misto tra il supereroe e la divinità, si sia affiancata di recente quella del saggio che dispensa consigli e pillole di saggezza ai più giovani, appagato di quanto ottenuto sia in campo, sia a livello di status con la sconfitta di ogni critica e pregiudizio. Un piccolo esempio: nel 2015 affittò un’intera piazza di Malmö per permettere a tutti i suoi concittadini di vederlo all’opera in Malmö-Paris Saint Germain in Champions League; più recentemente, ha invece acquistato senza proclami, anzi, nel silenzio più assoluto, un bosco da mille ettari nei dintorni di Stoccolma. Una narrazione più riflessiva che non rinnega quella da spaccone, pleonastica e adolescenziale, che lo ha spesso caratterizzato, ma semplicemente la integra. Va in questo senso anche la frase: “sono solo un pezzo del puzzle”, pronunciata dopo il match di rientro in Nazionale. Chissà se qualcuno in Svezia ci ha creduto. Nessuno, né oggi né in futuro, sarà però costretto a farlo.