“Se sul lavoro non posso presentarmi e farmi accettare come uomo, non riuscirò mai a costruire la mia identità fino in fondo”. Milo ha 44 anni, vive alla periferia di Roma, fa il rider ed è un uomo trans che da mesi lotta per un diritto banale: poter lavorare usando il proprio nome. Una campagna che ha già ottenuto risultati importanti, ma a cui manca ancora l’ultima vittoria. Prima di buttarsi nelle consegne a domicilio, Milo ha sempre lavorato nel mondo dei social e della comunicazione: ha scelto di cambiare vita a febbraio 2020, pochi giorni prima dell’arrivo del Covid, alla scadenza dell’ultimo contratto a termine. “Ero disoccupato e non mi andava di restare a casa a far niente. Lì mi hanno preso al volo, ho deciso di provare”, racconta al fattoquotidiano.it. Così apre la partita Iva, indossa lo zainetto giallo di Glovo e poco dopo anche quello rosso di Just Eat. E subito, lui che sui documenti porta ancora il dead name – la vecchia identità femminile – si trova ad affrontare gli inconvenienti tutti particolari del mestiere: i “ciao cara”, “grazie signorina” et cetera degli utenti che sull’app vedono un nome di donna, e – complice la mascherina – danno per scontato, non per colpa, che alla porta (o al negozio) si presenti una rider.
“Un incubo”, ricorda lui. “Ogni volta la tentazione era di correggerli, ma lo facevo solo quando non c’era la folla di colleghi a portata d’orecchio, per mantenere un po’ di riservatezza. Mi è capitato anche di essere preso a parolacce da un ristoratore che insisteva a chiamarmi “cara” nonostante le correzioni. D’altra parte – spiega – io mi presento al maschile, mi sto facendo crescere la barba, ma non ho ancora iniziato la terapia ormonale: tutto ciò che posso produrre è una diagnosi d’incongruenza di genere. La strada per arrivare al cambio di nome all’anagrafe, almeno in Italia, è ancora molto lunga”. Eppure, almeno con i primi due datori, una soluzione per consentire a Milo di consegnare usando il proprio nome si trova abbastanza in fretta. Anche grazie al Roma Pride 2020 (limitato ai social a causa della pandemia) di cui è stato uno dei testimonial. “Magari ci fosse un’autocertificazione anche per il genere”, si legge nella card con il suo volto, accompagnata da un testo che racconta le sue peripezie nel lavoro di tutti i giorni, nel pieno della prima ondata.
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In quei giorni Milo condivide il post sulle pagine social di Glovo, l’azienda con cui lavora più spesso. E a stretto giro gli arriva una telefonata: “Mi dicono che hanno letto la storia, che sono d’accordo con me e bisogna sostituire il dead name con il mio nome: è il minimo, spiegano, che possono fare per dimostrarsi coerenti coi propri valori. Dopo pochi minuti era già tutto a posto. Potevo lavorare con il mio nuovo Id”. Lo stesso accade con Just Eat: “Ci hanno messo qualche mese ad aggiornare l’app, ma fin da subito, tramite l’assistenza, si sono rivolti a me chiamandomi Milo. A un certo punto hanno aggiornato il mio profilo e me ne sono accorto per caso”. L’unico brand da cui, invece, non è ancora riuscito a farsi ascoltare è Deliveroo, quello dello zainetto celeste, che ha indossato solo lo scorso febbraio. “Le ho provate tutte”, dice. Prima una mail all’assistenza, intorno a Pasqua: “Vi chiedo di andare oltre la burocrazia – scrive -, anche perché non riesco a lavorare, per l’ansia che vedano il nome agli store/che lo sappiano i colleghi, quindi finora ho consegnato pochi ordini, sperando sempre di non trovare troppi colleghi agli store ed evitare imbarazzi (ma anche dei reali pericoli, dato che non tutte le persone sono civili e il rischio di aggressione per una persona trans è altissimo)”.
La risposta è cortese ma evasiva: non si può, ci dispiace. Un atteggiamento del tutto diverso dai concorrenti, forse dovuto alle recenti controversie sui prestiti di Id tra fattorini, un fenomeno che sfocia in forme di vero caporalato digitale. Fatto sta che Milo, lungi dal farsene una ragione, inizia a tampinare l’azienda su tutte le sue pagine social. In particolare quando Deliveroo, per celebrare il Pride month, posta su LinkedIn un invito ad aggiornare l’app alla nuova versione con logo DeLOVEroo “per supportare la comunità Lgbtq+” con l’incoraggiamento a “partner, clienti, rider e dipendenti a manifestare il proprio supporto sul posto di lavoro e non solo”. “Cosa state facendo per noi che siamo in attesa di un nuovo Id ma stiamo già vivendo la nostra vera identità?”, replica lui in un commento. “Io sono un maschio, ma sull’app sono ancora femmina e questo non è sicuro né per me, né per gli esercenti e i clienti, che si aspettano una donna e vedono arrivare me con la barba. Persino in Italia noi trans possiamo usare un alias in tante Università e luoghi di lavoro pubblici e privati, perché non potete consentirlo voi?”.
@Deliveroo @Deliveroo_Italy non so più come dirvelo che per essere veramente ally non basta il logo rainbow o una poke bowl. Vi sto inseguendo su tutti i social. #rider #trans ????️⚧️????️???? #Pride2021 pic.twitter.com/EwZU90gOgg
— il classico estroverso rumoroso e sguaiato (@Milo_Meelow) June 11, 2021
Il siparietto si ripete su Instagram: Deliveroo pubblicizza la “RainBowl” di un ristorante specializzato in pokè per “celebrare il mese del #Pride con i colori e i sapori dell’arcobaleno“. Lui risponde ancora citando la propria vicenda e facendo notare che “per essere veramente alleati serve qualcosa di più di un’insalata rainbow“. Lo scambio, postato su Twitter, ottiene un discreto successo. Così anche da Deliveroo telefonano a Milo, ma ribadiscono di avere le mani legate per “problemi tecnici”. “Io ho persino offerto loro una mano, citando buone pratiche come quella dell’Arci, che ha rivisto il sistema di tesseramento per le persone trans senza ancora i nuovi documenti. Ma non c’è stato niente da fare. Per questo continuerò a non consegnare più con Deliveroo, come già avevo deciso di fare da mesi, nonostante il danno economico. Sperando che passi chiaro il messaggio: per supportare la causa Lgbt non bastano né un logo modificato né una poké bowl arcobaleno”.