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Si scrive America Latina, si legge instabilità

In America Latina c’è una costante: l’instabilità. È un elemento che sembra purtroppo far parte delle giovani democrazie regionali che vengono continuamente scosse da turbolenze sociali, economiche e politiche, sia per fattori endogeni che esogeni, è bene ricordarlo. Non si tratta però di semplici scosse di assestamento, ma di veri e propri terremoti le cui conseguenze molto spesso sono radicali e profonde. La settimana appena trascorsa è stata un chiaro esempio di ciò.

Da un lato è stato confermato in Brasile che contro Lula Ignacio da Silva ci fu un vero e proprio complotto e lo stesso ex-presidente, ora scagionato, vola nei sondaggi per le elezioni nel 2022. In Colombia, ancora nella morsa delle proteste e dopo mesi di dura (e letale) repressione delle forze dell’ordine, tornano ad affacciarsi i fantasmi degli attentanti della guerriglia. Il primo a Cúcuta a metà giugno, dove un’autobomba attribuita all’Eln è stato fatto esplodere nella caserma della Brigata 30 dell’esercito, causando 36 feriti. Il secondo nel pomeriggio del 25 di giugno, contro il Presidente della Repubblica Iván Duque: anche questo attribuito all’Eln.

Di ritorno da una visita a Sardinata, zona Catatumbo (frontiera con il Venezuela), l’elicottero Black Hawk nel quale viaggiavano, oltre a Duque, il Ministro di Difesa Diego Molano, il ministro dell’interno Daniel Palacios e il Governatore del dipartimento del Nord di Santander Silvano Serrano è stato raggiunto da 3 colpi di fucile. Gli spari hanno danneggiato la fusoliera ma l’elicottero è riuscito ad atterrare all’aeroporto di Cúcuta traendo in salvo tutti i passeggeri.

In Argentina stiamo assistendo all’ennesimo default economico di un paese che non riesce a uscire dalla spirale del debito esterno e dai danni delle politiche neoliberiste del consenso di Washington, tanto amato dal recentemente scomparso ex presidente Carlos Menem.

In Nicaragua l’accoppiata Ortega-Murillo ha gettato la maschera e ormai anche i più scettici e i più fanatici dovrebbero aver capito che quello che sta succedendo nel paese centroamericano non ha niente a che vedere con la rivoluzione di Sandino. Decine gli arresti arbitrari eseguiti nei giorni passati contri gli avversari politici di Daniel Oretga (75 anni) che insieme alla consorte, Rosario Murillo (70) ha creato un vero e proprio regno del terrore, causando una diaspora di centinaia a di migliaia di persone. L’Onu, per bocca di Michelle Bachelet, ha condannato questi arresti arbitrari e anche l’Oas finalmente si sta muovendo per sanzionare il regime nicaraguense.

L’Onu in questi giorni ha anche ratificato (per la 29 esima volta dal 1992) l’illegalità e l’arbitrarietà dell’embargo Usa a Cuba (bloqueo). Infatti con una votazione realizzata il 23 giungo, 184 paesi hanno chiesto la fine del blocco economico contro quella che è conosciuta come “la perla del Caribe”. Sono stati 3 gli astenuti (alleati Usa), dei quali uno è proprio la Colombia di Duque: gli altri sono Ucraina e Emirati Arabi Uniti. Contro la risoluzione, come c’era da aspettarsi, Israele e Stati Uniti D’America. Mi piacerebbe pensare il contrario, ma purtroppo la storia (e le 28 dichiarazioni precedenti) ci insegnano che questo non servirà a far cessare “el bloqueo”.

Dopo questa breve carrellata eccoci forse al punto più intricato e potenzialmente pericoloso della regione. Sì, perché se da un lato il Venezuela di Maduro sembra aver ritrovato la “voglia” di negoziare con l’opposizione politica (contribuendo ad abbassare la tensione), quello che sta succedendo in Perù davvero non trova spiegazione e lo trasforma nel punto più “caldo” del continente. Pedro Castillo, il maestro rurale evocatore di una sinistra ortodossa, ha vinto le elezioni: su questo non ci piove. Eppure, a tre settimane dalle votazioni non è ancora stato dichiarato presidente. Sapevamo che avremo dovuto aspettare qualche giorno per i conteggi finali ma adesso stiamo assistendo ad un temporaggiamento imbarazzante che non fa certo bene all’istituzionalismo del paese, rappresentato ora dal presidente interino Sagasti.

L’élite conservatrice e neoliberista peruviana non vuole mollare la presa e a colpi di appelli (tutti bocciati) sta cercando di ritardare l’inevitabile. Anche i decine di militari in congedo hanno denunciato, con una lettera pubblica, una possibile frode elettorale (già smentita da osservatori internazionali e dallo stesso consiglio nazionale elettorale) mettendo in discussione la possibile fedeltà dell’esercito al nuovo presidente. Lo spettro di una nuova Venezuela sventolato da Keiko Fujimori e dal suo “ambasciatore” Mario Vargas Llosa durante la campagna elettorale ha creato terreno fertile per una situazione di stallo senza precedenti.

Ha vinto Castillo, ha vinto l’antifujimorismo, ma il risultato non è ancora stato riconosciuto: nel frattempo decide di migliaia di persone sono arrivate dalle zone rurali a Lima, per difendere il risultato delle urne. Keiko Fujimori, che rischia nel frattempo più di 30 anni di carcere per un processo che la vedeva coinvolta già prima di candidarsi, non si rassegna e cavalca l’onda cospirazionista.

In Ecuador il correismo, accusato di aver fagocitato lo Stato in una spirale di corruzione senza precedenti, ha perso recentemente le elezioni e il suo esponente, Andrés Arauz, ha riconosciuto la sconfitta congratulandosi in tempo reale con Guillermo Lasso. Un’attuazione applaudita dalla comunità internazionale (occidentale) che però si è chiusa in un imbarazzante silenzio sul caso del Perù.

Dobbiamo dunque pensare che ci siano due pesi e due misure e che la richiesta di presenza di Stato e di rispetto della democrazia avvenga solo quando vincono esponenti politici visti di buon occhio dai vertici dell’Fmi e dalla Banca Mondiale? Sono sicuro che ognuno saprà trovare la sua risposta a questa domanda.