"L’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro ha stimato che il rischio di ammalarsi di tumori intestinali aumenta del 18% per ogni 100 g di carni rosse e per ogni 50 g di carni conservate consumate al giorno. Per 200 g di carne al giorno il rischio sale, quindi, a circa il 40% in più rispetto a chi non magia carne, e così via"
L’Unione europea deve decidere da che parte stare, se da quella della salute o se invece degli interessi economici di certe categorie produttive. Questa è un po’ la sintesi dell’appello lanciato nei giorni scorsi da oltre 60 scienziati in una lettera in cui hanno chiesto alla Commissione europea di spostare i suoi finanziamenti per la promozione del consumo di prodotti animali e supportare invece diete più sostenibili a base vegetale. Secondo questo gruppo di esperti, negli ultimi anni, quasi un terzo dei 200 milioni di euro del budget di promozione è stato dedicato ogni anno alla pubblicità dei prodotti animali, in alcuni casi finanziando fino all’80% dei costi delle campagne di marketing. Alcune di queste hanno esplicitamente mirato a invertire il declino o a mantenere la crescita del consumo di carne. La contraddizione sta quindi tutta in queste cifre messe di fronte a strategie come il Farm to Fork, il piano decennale messo a punto dalla Commissione europea per guidare la transizione verso un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente.
Da alcuni anni, numerosi studi hanno indotto l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro – Iarc – (un’agenzia dell’Organizzazione mondiale della sanità che valuta il rischio cancerogeno per l’uomo delle sostanze chimiche e dei processi produttivi), a classificare “il consumo di carni lavorate (insaccati, prosciutti, würstel, carni in scatola, hamburger) come cancerogeno e il consumo di carni rosse (bovine, suine, ovine, equine) come probabilmente cancerogeno, soprattutto per l’intestino”, ci ricorda il dottor Franco Berrino, epidemiologo protagonista di studi internazionali sui temi del cibo e prevenzione tumorale (che continua la sua opera di informazione con la sua associazione “La grande via”). “Considerando complessivamente tutti gli studi epidemiologici”, prosegue l’esperto, “la Iarc ha stimato che il rischio di ammalarsi di tumori intestinali aumenta del 18% per ogni 100 g di carni rosse e per ogni 50 g di carni conservate consumate al giorno. Per 200 g di carne al giorno il rischio sale, quindi, a circa il 40% in più rispetto a chi non magia carne, e così via. È ragionevole ipotizzare che il rischio vero sia più alto, perché gli studi sono basati su questionari alimentari, che inevitabilmente contengono errori che causano una sottostima del rischio. Lo studio Epic, che monitora 500mila persone in 10 Paesi europei, con un’attenta correzione degli errori dei questionari alimentari ha stimato che con un consumo di 200 g al giorno di carni (rosse o lavorate) il rischio di cancro dell’intestino è circa doppio rispetto a chi non ne mangia”.
Ecco perché è davvero stridente l’incongruenza dell’Europa tra pratiche e buone intenzioni. “Condivido l’appello dei sessanta esperti e, se i dati sono corretti, l’Unione europea ha il dovere di risolvere questa contraddizione e promuovere con più concretezza il consumo di alimenti salutari”, sottolinea la dottoressa Anna Villarini, biologa, ricercatrice dell’Istituto tumori di Milano e coordinatrice nazionale del progetto Diana Web, uno studio di ricerca partecipata per valutare l’ipotesi che un corretto stile di vita possa ridurre il rischio di recidive o migliorare la prognosi e la qualità di vita di chi avesse già avuto una ripresa della malattia (tra i collaboratori ci sono l’Università degli Studi di Perugia e la Fondazione Vita e Salute). “D’altronde, l’Europa”, continua Villarini, “finanzia diverse ricerche che hanno evidenziato i benefici dell’aumento del consumo di cibi vegetali per la salute della persona. Il problema è che ci sono ancora, anche tra medici, nutrizionisti e ricercatori, persone che considerano la carne, specialmente rossa, come fondamentale per lo sviluppo dell’individuo, cosa che non è di per sé vera”.
Un appello così forte e autorevole può bastare a invertire questa tendenza a privilegiare ancora i consumi carnei? Come si potrebbe fare attraverso iniziative istituzionali? “Addebitando ai produttori di cibo animale l’elevatissimo costo ambientale del ciclo produttivo e incentivandoli a riconvertirsi”, afferma sicura la dottoressa Luciana Baroni, medico, geriatra e neurologo, esperta di nutrizione a base vegetale, Presidente della Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana (ha da poco pubblicato il libro Il piatto sostenibile, scritto insieme allo chef Alberto Berto, Enea Edizioni). “Indirizzando i sussidi verso la produzione di cibi vegetali per il consumo umano; promuovendo iniziative per far ‘abituare’ la popolazione a mangiare ‘normalmente’ più vegetale”, continua Baroni. Non sarebbe cosa da poco anche introdurre incentivi fiscali per ridurre i prezzi dei prodotti provenienti da agricoltura biologica? “Sicuramente, la produzione di tutti i cibi vegetali dovrebbe ricevere incentivi e una riduzione della tassazione (es. i latti vegetali passare da un’Iva al 22% al 4%)”.
Nella lettera dei sessanta si sottolinea il bisogno di riformare una politica in favore della salute pubblica e, in particolare, per la protezione dell’ambiente e il benessere degli animali. Mangiare in un certo modo significa quindi anche sostenibilità ambientale. Quanto tutto questo è alla portata di un largo numero di consumatori? “In realtà è semplicissimo”, risponde Baroni: “il cibo animale deriva dalla trasformazione, a opera dell’animale, di cibo vegetale (con spreco di risorse e produzione di scorie). Quel che nuoce all’ambiente nuoce anche alla nostra salute, e viceversa. Dobbiamo quindi scegliere di modificare il nostro comportamento: se l’ambiente viene distrutto, l’umanità non può sopravvivere”.