Dal primo luglio si pagherà l’Iva sui prodotti che arrivano da paesi extra Ue anche se di valore inferiore ai 22 euro. A raccogliere l’imposta sulle transazioni fino a 150 euro saranno direttamente le piattaforme di vendita online come Amazon o eBay, anche se le merci hanno già passato le dogane e sono stoccate in centri di smistamento nel Vecchio Continente. Le regole fiscali dell’e-commerce cambiano anche in Italia per effetto di una direttiva europea del 2017 che punta ad arginare il più imponente giro di evasione fiscale dai tempi del proibizionismo: un flusso incontrollato di denaro che viaggia con gli acquisti in rete e che, stando alla Corte dei Conti europea, si porta via ogni anno dai 7 ai 9 miliardi di euro di gettito fiscale.

Questa piccola rivoluzione nella riscossione dei tributi che responsabilizza le piattaforme divide gli esperti: c’è chi scommette che funzionerà, chi teme possa innescare l’aumento dei prezzi sui principali marketplace e chi invece dubita che gli Stati siano realmente attrezzati per gestirla, se neppure riescono a far pagare le imposte agli stessi colossi del web che con l’e-commerce fanno fatturati da capogiro. E’ certo, invece, che le nuove regole non colmano un’altra falla del sistema che impoverisce gli Stati, danneggia le imprese nazionali e i negozi fisici insieme a tutti i contribuenti europei: le frodi sulle importazioni. Antiche quanto i caselli daziari, resistono a tutto e tutti, anche nell’era delle procedure telematiche d’importazione e di pagamento che teoricamente sarebbero tracciate. Su questo l’Europa non ha fatto analoghi passi avanti riformando la materia della “rappresentanza fiscale”, il meccanismo che consente alle imprese estere di importare con prestanome merci dichiarando quantità e valori inferiori a quelli reali, eludono così sistematicamente i diritti doganali e le relative sanzioni.

Per bloccare il fenomeno si potevano prevedere strumenti normativi deterrenti rivolti ai rappresentanti fiscali che abilitano soggetti in realtà mai identificati, ad esempio con sanzioni o con la revoca dell’abilitazione. E invece la falla resta. Come funziona lo racconta a Ilfattoquotidiano.it un testimone che, suo malgrado, ha esplorato a fondo i meccanismi perversi dell’elusione che coinvolge non solo “società cartiera” a 7mila chilometri di distanza ma professionisti che stanno proprio qui, in Italia, rintanati in rispettabili studi legali, negli uffici da commercialista, presso insospettabili Caf che pubblicizzano servizi per gli anziani e non altri inconfessabili.

Si chiama Francesco Colcerasa, è un commercialista e revisore contabile romano di 60 anni. Nel panorama dei professionisti abilitati all’intermediazione con l’estero è un po’ una mosca bianca. Con la sua “Servix Srl stp”, società iscritta all’ordine dei Commercialisti di Roma, fa da rappresentante fiscale a circa 800 aziende della provincia del Guandong che vendono i loro prodotti in Italia tramite i principali marketplace come Amazon, Ebay e Alibaba. Anche lui è caduto nella tana, come Alice. Al suo studio si sono rivolte alcune società cinesi che avevano eluso qualcosa come 5 miliardi di contributi in Italia. “Quando l’ho capito li ho mandati al diavolo, ma intanto ho toccato con mano il fenomeno osservando quanti professionisti all’apparenza rispettabilissimi aprono partite Iva in Italia a nome di soggetti inesistenti, irrintracciabili o nullatenenti autorizzandoli all’importazione. Un solo commercialista ne aveva abilitati 5mila contemporaneamente. Ma nessuno controlla che abbiano effettivamente indentificato il soggetto per il quale fa aprire la partita Iva che autorizza l’importazione”.

Racconta come sofisticazione e impunità nel settore degli acquisti esteri siano a tali che a un certo punto qualcuno si è addirittura appropriato della sua identità digitale pur di accreditare società e rappresentanti cinesi. “Ho dovuto presentare denunce alla Guardia di Finanza e alla Procura di Roma, spiegando per filo e per segno i meccanismi delle frodi perpetrate all’ombra dei colossi del web, indicando con chiarezza le falle, le complicità e le contromisure possibili”. Colcerasa ha un motivo in più per protestare: da anni spende un mucchio di soldi per garantire una filiera “pulita” e certificata, che consenta a chi vende e a chi compra dall’estero di non trasformarsi di trasformarsi in complici degli evasori a loro insaputa.

In collaborazione con l’Agenzia delle Entrate e delle Dogane ha elaborato un sistema anti-frode e ha aperto un ufficio di rappresentanza a Shenzhen con un dipendente che identifica i rappresentanti delle aziende cinesi personalmente riscontra con scrupolo tutte le dichiarazioni doganali delle merci che esportano, verifica la congruità del loro valore e l’avvenuto pagamento delle imposte. Nulla di diverso da quel che impone la legge. Solo che in Italia (quasi) nessuno lo fa. “La Guardia di Finanza oggettivamente non può controllare migliaia di rappresentanti fiscali che esistono solo sulla carta, come non può materialmente ispezionare tutta la merce che entra. Ho suggerito allora di stanare i commercialisti, i notai, gli avvocati e i caf compiacenti che li accreditano senza fare alcun controllo o peggio sapendo esattamente come si muoveranno. C’è anche una legge antiriciclaggio che lo consentirebbe. Prevede fino a 50mila euro di sanzione per false dichiarazioni, ma viene utilizzata solo per il sistema bancario, non per l’e-commerce”.

Se i prestanome cinesi sono irreperibili, l’intermediario fiscale che li accredita nel sistema dell’Agenzia delle Entrate (Entratel) è qui, in Italia, proprio sotto i suoi occhi. “Se passa da zero a 100 partite Iva in un giorno, se ha più clienti di quanti ne possa seguire coi suoi dipendenti dovrebbe scattare un “alert” automatico. Ma non succede quasi mai. Le indagini partono per via incidentale a seguito di un controllo alla dogana; ma per una partita di merce sequestrata cento sono andate in porto, trascinandosi ogni giorno milioni di euro evasi. Questo sistema viene tollerato da anni e ci danneggia tutti. Spesso mi chiedo chi me lo fa fare di spendere 70/80mila euro l’anno per tenere un ufficio in Cina per garantire quel che già la legge espressamente sancisce, salvo scoprire che poi nessuno si preoccupa di farla rispettare”.

Irrisolto si trascina anche il nodo delle banche dati e del controllo dei flussi di denaro che corrono per via telematica. “Amazon ed Ebay, da quel che mi risulta, mettono a disposizione dell’autorità di controllo tracciati e tabulati dei propri “seller”. Ma all’ Agenzia delle Entrate di questi dati non sanno cosa farne (perché non sanno come legarli alle dichiarazioni dei redditi dei soggetti venditori”. E’ poi quel che succede da sempre con le dichiarazioni periodiche di liquidazione (Lipe) che ogni tre mesi il soggetto fiscale deve fare per attestare quanta Iva ha versato. “Il sistema telematico dell’Agenzia delle Entrate va a verificare in modo automatico che quella dichiarazione coincida con il versamento dell’F24. Ma i pagamenti da estero non avvengono con F24 ma attraverso un bonifico sul conto di tesoreria della Banca d’Italia”. O meglio, dovrebbero. “In realtà succede tutt’altro: le imprese cinesi si appoggiano all’intermediario in Italia, pagano lui direttamente da conti che non sono neppure basati in Cina ma ad Hong Kong. In pratica fanno riciclaggio”.

L’esperienza di Colcerasa è che anche quando l’intermediario chiede alla Banca d’Italia riscontro dei pagamenti Iva effettuati dai suoi stessi clienti cinesi si sente rispondere che risulta l’importo, la causale con la partita Iva del soggetto estero ma non riescono a indentificare la banca di provenienza. “Quando ho chiesto conto dell’anomalia mi è stata data una risposta sbrigativa. L’unica certezza che ho è che la banca dati di Banca d’Italia e l’Agenzia delle Entrate non si parlano. Non riescono neppure a fare le riconciliazioni dei dati. Ecco perché mi arrivano avvisi di pagamento per cose già pagate”. Gli uffici di via XX settembre e l’Ufficio delle Entrate Roma 1 stanno a quattro chilometri di distanza, e non comunicano. “Figuriamoci se parlano con Amazon”.

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