Ai concorsi indetti dalle università italiane non possono partecipare i parenti dei membri del Cda dell’ateneo, ma possono farlo gli stessi componenti del Cda. È quanto emerge dall’esito di un procedimento penale nei confronti di due docenti dell’ateneo di Foggia, concluso nei giorni scorsi con il loro proscioglimento. A monte della vicenda c’è la riforma Gelmini del 2010, che ha sancito il divieto, per i parenti fino al quarto grado, di prendere parte all’iter procedurale per l’assunzione o la chiamata di un’università. La norma recita: “In ogni caso, ai procedimenti per la chiamata (…) non possono partecipare coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo”.
Niente più parentopoli, insomma. Quella norma, però, non vieta esplicitamente la partecipazione agli stessi membri del cda. E in diverse parti d’Italia la vicenda è stata sollevata dinanzi ai tribunali amministrativi, con esiti contrastanti. Nel 2019 il nodo arriva dinanzi al Consiglio di Stato, che, a proposito di un caso riguardante l’università di Pisa, chiarisce che quel divieto ai parenti è – nelle intenzioni del legislatore – una sorta di corollario per salvaguardare la trasparenza e la regolarità di una procedura: l’obiettivo vero della legge, cioè evitare il nepotismo, “risulterebbe frustrato qualora si ammettesse la partecipazione al concorso del membro stesso della struttura”. Insomma se non possono partecipare i parenti di chi fa parte del cda, figuriamoci loro stessi.
Eppure all’università di Foggia – tra il 2016 e il 2017, quando ancora il Consiglio di Stato non si era pronunciato – due docenti che ricoprivano anche il ruolo di componenti del Consiglio, Marzia Albenzio e Carmela Robustella, avevano preso parte e vinto due concorsi banditi da quello stesso organo di cui facevano parte. A distanza di qualche anno – e dopo la pronuncia del massimo organo amministrativo – altri due professori dell’ateneo, Diego Centonze e Alessandro Del Nobile, depositano un esposto alla procura foggiana denunciando la presunta irregolarità. Al termine delle indagini preliminari il pubblico ministero chiede l’archiviazione per i reati di falso e abuso d’ufficio, ma il gip di Foggia, Antonio Sicuranza, dispone l’imputazione coatta delle due docenti per il reato di falso, sostenendo che entrambe avessero omesso di dichiarare di essere componenti del Cda per aggirare il divieto previsto.
La procura, quindi, ha chiesto a un nuovo giudice di emettere un decreto penale di condanna. Ma gli avvocati difensori Raul Pellegrini e Gianluca Ursitti hanno depositato una serie di memorie con le quali sono riusciti a dimostrare che in realtà non c’era alcuna omissione, perché le due accademiche avevano indicato il loro ruolo nel Cda all’interno del curriculum vitae allegato alla domanda di partecipazione. Il gup ha quindi prosciolto entrambe, specificando nel provvedimento, peraltro, che “le due imputate non erano e non sono parenti o affini di membri del Cda in oggetto, ma erano loro stesse componenti del predetto Cda”, e quindi, “sulla base del tenore letterale” della norma introdotta dall’allora ministro Gelmini “nessuna delle due imputate ha dichiarato il falso”. Accogliere la tesi dei denuncianti, aggiunge, significherebbe “estendere” e “parificare i parenti/affini dei consiglieri di amministrazione ai consiglieri medesimi”. Per dirla in termini più semplici: nessuno è parente di se stesso. E quindi? Il risultato è che in Italia ai concorsi banditi dall’università non possono sicuramente partecipare i parenti dei consiglieri di amministrazione dell’ateneo. E i consiglieri stessi? Dipende: per la giustizia amministrativa non possono. Per quella penale, talvolta, sì.