Un caffè bulgaro a Schaarbeek, comune belga sito nella Regione di Bruxelles-Capitale, è tutto colorato di giallo, rosso e nero, i colori della bandiera del Belgio. A Lennik, roccaforte degli autonomisti fiamminghi, una grande bandiera con gli stessi colori è stata messa sulla statua di Prins, il cavallo da tiro simbolo della regione del Brabante, la stessa bandiera che anni prima il sindaco della cittadina aveva bandito dal proprio Comune per fare spazio esclusivamente a quella con il leone delle Fiandre. Una pescheria nei pressi di Genk suona la Brabanconne, l’inno nazionale. Scene di vita ordinaria in qualsiasi paese (con l’eccezione dell’inno nei negozi) alla vigilia di una grande manifestazione sportiva, ma che in Belgio nel 2018 sono diventate oggetto di una docu-inchiesta. Perché a cose simili i belgi non erano abituati. Non bisogna fraintendere: le bandiere tricolori ci sono sempre state in Belgio durante gli Europei e i Mondiali, ma se si esclude Bruxelles e qualche altra città francofona, sono sempre risultate in minoranze rispetto a quelle delle comunità locali. Non è più così. Tutto il paese si è riscoperto giallo, rosso e nero.
Marc Dejonghe è il titolare della Footstock, azienda che vende materiale sportivo. Anni fa nemmeno una robusta scontistica gli permetteva di vendere i kit della nazionale, mentre oggi fatica a tenere le scorte in magazzino, tanto che ha dovuto assumere una persona solo per rispondere a telefonate e mail. In un anno i Diavoli Rossi vendono 50-55mila magliette, e il triplo vengono sequestrate perché contraffatte. Facile arrivare alla conclusione che il calcio abbia unito un paese così frammentato, istituzionalmente caotico (il Belgio è uno stato caratterizzato da un federalismo definito da sovrapposizione, dove esistono cinque parlamenti e altrettanti governi – Fiandre, Vallonia, città di Bruxelles, comunità tedesca e francese – oltre a quello nazionale), sotto certi aspetti addirittura assurdo. Basti pensare al settimanale sportivo Sport voetbal magazine, che in Vallonia diventa Sport foot magazine. Stessa testata, ma lingua e contenuti diversi. “Perché ai lettori valloni interessano giocatori e squadre appartenenti alla loro comunità”, dice Francois Colin, ex addetto stampa della nazionale belga, “e lo stesso vale per i lettori fiamminghi”. Anche politicamente, ogni comunità ha il suo movimento. Ci sono socialisti, nazionalisti e popolari nelle Fiandre, in Vallonia e nella comunità germanofona che gravita attorno a Eupen. Il compromesso è insito nella natura stessa del Belgio e non potrebbe essere altrimenti. Quando le cose vanno male, come nel biennio 2010-11, una crisi di governo può durare anche 598 giorni.
Tornando al calcio, in realtà questo elemento unificatore c’è sempre stato e, come in ogni paese, il sentimento risulta più forte quando accompagnato da cicli vincenti o, quantomeno, positivi. Rispetto al passato, però, la nazionale belga degli ultimi anni ha cambiato radicalmente la prospettiva. Secondo Nico Claesen, autore del gol decisivo nel 4-3 all’URSS al Mondiale 1986 che ha rappresentato uno dei momenti topici nella storia del calcio belga, “spesso stampa e politica separano il paese con muri più alti di quanto lo siano nella realtà. Nel 1986 arrivammo quarti al Mondiale con una squadra composta da fiamminghi e valloni, ma nessuno lo rimarcò. Negli anni Duemila invece, quando è iniziata la crisi, la colpa era della nazionale spaccata, specchio del paese, e quindi tanto valeva dividersi”. Proprio in quel periodo il partito nazionalista Vlaams Belang inoltrò alla FIFA una formale richiesta per la creazione di una nazionale fiamminga autonoma. I fiamminghi hanno sempre avuto l’ossessione per i numeri legati alla lingua: sui loro giornali compaiono spesso tabelle e statistiche sulla divisione fiamminghi-valloni in nazionale nei vari tornei. Proprio questo dato è il punto di partenza per comprendere la nuova dimensione nella quale i Diavoli Rossi dell’ultimo decennio hanno portato il paese.
Oggi non ha più senso fare la conta delle comunità all’interno della rosa del Belgio. Giocatori come Lukaku, Witsel, Tielemans, Carrasco, De Bruyne, i fratelli Hazard o, nel recente passato, Kompany, Fellaini, Dembele, sono belgi. Punto. Appartengono al paese, anzi, ne sono ambasciatori al di fuori dei confini, viste le loro carriere nei principali campionati continentali. Le divisioni locali non gli appartengono, vuoi per ragioni di background (vedi i figli degli immigrati), vuoi per lo spessore internazionale delle proprie carriere. “Sono cittadini del mondo”, ha detto il politologo Jean-Michel De Waele, “e quindi vengono accettati da tutti. Anche perché chi può definire i tratti e le caratteristiche del tipico belga? Possiamo farlo con gli svedesi o con gli italiani, ma il tipico belga, di fatto, non esiste”. Pertanto, prosegue De Waele, sarebbe difficile non considerare Romelu Lukaku un vero belga e non sentirsi rappresentato da lui. Il Belgio ha avuto un premier, Elio Di Rupo, figlio di migranti italiani, e un segretario di stato, Zuhal Demir, dalle radici curde. “Con questo non intendo minimizzare la questione del razzismo”, conclude il professore, “ma chiunque riesca a farsi strada nella società belga è più facilmente accettato dalle elite rispetto ad altri paesi, e proprio la nazionale ha consolidato questo aspetto. Un giocatore dalle origini straniere viene comunque percepito come appartenente al paese in misura maggiore rispetto a stati quali Francia o Germania, dove i giocatori non autoctoni o di seconda generazione vengono celebrati in caso di vittoria ma tornano a essere chiamati “des gamins des banlieus” dopo una sconfitta”. Dopo il rigore sbagliato contro la Svizzera, Kylian Mbappè è tornato mezzo camerunese e mezzo algerino. Sulla percezione nazionale di Mario Balotelli a Euro 2012 e al Mondiale 2014 sappiamo già tutto, è roba nostra. Lukaku era e rimane belga.
La nazionale belga si inginocchia, eppure rimane lontana dalla politica. Soprattutto, non si presta a essere strumentalizzata. Nel 2014 i partiti valloni fecero la fila fuori dalla sede della KBVB-URBSFA (la Federcalcio belga, con acronimo in entrambe le lingue) per farsi ritrarre con la nazionale in partenza per il Mondiale brasiliano, il primo grande torneo a cui partecipò il Belgio dal 2002. Alle elezioni non presero un voto in più. Allo stesso modo le spinte centrifughe provenienti dalle Fiandre non sono cessate. Il processo sviluppato è più sotterraneo, riguarda l’identità (e la percezione che si ha di questa) più che la politica. Non sarà un gol di De Bruyne a tenere il Belgio unito. Ma un gol di De Bruyne ha fatto capire ai belgi che, in fondo, anche rimanere assieme non è poi così male.