Avviso ai naviganti del web: questo intervento è dettato dallo scetticismo paralizzante della ragione. Per tagliar corto: la ragione dice che l’Italia ha meno qualità del Belgio, se la mettiamo sul piano dei valori calcistici messi in campo e se rispettiamo le gerarchie Fifa che pongono i nostri avversari da tre anni in cima al mondo, mentre noi ci siamo faticosamente issati al settimo posto del ranking. Quindi, i numeri dicono che il Belgio è favorito.
Ma anche la Francia era favorita rispetto alla Svizzera. Dunque, la ragione non sempre… ha ragione. Potreste obiettare che sono entrato nell’accidentato ed insidioso territorio dell’ambiguità. E non vi dirò che avete torto. Ma nemmeno che avete… ragione. A ciascuno la sua verità, avrebbe chiosato Pirandello. La certezza incrollabile dei tifosi, per esempio, è il frutto dolce della passione, è professione di fede quanto quella dei crociati; è amore ostinato, come un tango di Gardel (Mi noche triste, Flor de fango…), giacché il calcio suscita sentimenti intensi ed inconfondibili, talvolta accompagnato da pensieri tristi che si ballano sugli spalti, talaltra da lampi di autentica euforia, come quando incontri una ragazza la cui bellezza brilla più di una stella…
I tifosi si ostinano a sperare, sino all’ultimo minuto. Se ne fregano dei pronostici avversi. Gli umani sono incapaci di essere onesti con se stessi, figuriamoci con la squadra del cuore. Si manipola la realtà. Gli allenatori come Mancini, che si chiama Roberto come il suo rivale catalano Martinez ingaggiato dal Belgio il 3 agosto del 2016, conoscendo le reali forze in campo e valutando quelle a disposizione, cercano di mimetizzare le debolezze e puntano sull’imponderabile, sulla giocata da partita della vita. È l’insegnamento di sant’Agostino: “La forza del caso è diffusa in ogni ordine di cose”. E se gli analisti, i tecnici e gli esperti di football stabiliscono che le probabilità di una vittoria azzurra sia inferiore a quella dei Diavoli Rossi, ebbene, sappiate che il fato se la ride delle probabilità. I giapponesi, per esempio, si affidano molto ad un talismano per auspicare fortuna e successo. La bambola daruma. Secondo la leggenda, un medico buddista del sesto secolo, sedette in meditazione per un tempo così lungo che le sue gambe e le sue braccia scomparvero. Ed è tale l’aspetto della bambola: di forma ovale che raffigura un ometto e che si rimette in piedi dopo ogni colpo. Morale della favola: mai abbattersi, bensì trovare sempre la forza di rialzarsi e di combattere.
È vero che i belgi hanno per centravanti uno come Lukaku, travolgente e inarrestabile; ed è ahinoi pur vero che l’Italia schiera nel suo ruolo il simpatico Immobile, ma già il nome potrebbe essere un indizio, se non una sentenza. Per esorcizzare simile jattura, nello sport ci si affida agli scongiuri, ed in verità ho conosciuto molti campioni che erano anche superstiziosi. Il più famoso di tutti è Michael Jordan. Giocava indossando sempre i calzoncini dell’università, perché “quando li porto mi sento a mio agio, più fiducioso”. Persino l’inventore degli inventori Thomas Alva Edison diceva di non mollare mai “perché prima o poi la fortuna potrebbe arrivare”.
Ecco, cari azzurri, non mollate mai. Soprattutto coi belgi. Perché è un dovere storico. Settantacinque anni fa, il 23 giugno 1946, venne sottoscritto il famigerato accord-charbon. L’Italia aveva bisogno di carbone. Il Belgio di minatori. Ne voleva almeno 50mila. Per ognuno, in cambio, avrebbe dato all’Italia 200 chili di carbone. Comparvero sui muri di tutta Italia manifesti colorati di rosa in cui si elencavano i vantaggi derivanti dal mestiere di minatore: salari elevati, viaggi in ferrovia gratis, assegni familiari, alloggi, ferie pagate, pensionamento anticipato. Nel 1946 ci credettero in 24mila. E 46mila due anni dopo.
L’accordo era una trappola. Intanto, il viaggio durava tre giorni e tre notti in tradotte senza servizi, con vagoni malsani. Gli emigrati vennero sbattuti in ex campi di concentramento, dentro baracche di legno o di lamiere ondulate. Dentro, letti a castello, materassi di paglia, biancheria sudicia. Il contratto prevedeva cinque anni di lavoro, se recedevi finivi in galera. Schiavi. Fatica. Polvere che spaccava i polmoni. Morti. Non solo di silicosi. L’8 agosto del 1956, per esempio, il grisou esplose nella miniera del Bois du Cazier di Marcinelle. Era una bella giornata, ma il fumo che scappava dal pozzo aveva coperto il cielo e nascosto il sole. Sotto, i minatori bruciavano vivi. Un massacro: 262 morti, 136 erano italiani, di essi 29 di Manoppello, il paese di Verratti. Con Sandro Pertini ho visitato la miniera, il museo, ho ascoltato le testimonianze dei sopravvissuti, e c’era chi mi disse che “in Italia, ormai, siamo considerati belgi mentre qui continuano a chiamarci con disprezzo rital”.
Marcinelle, credo, è il luogo più simbolico che rappresenta il tormentato legame tra Italia e Belgio. Racconta disperazione, dolore, fatica, morte. Ma anche rinascita, forza, coraggio, dignità. In Italia il calcio vanta una lunga e fiera tradizione, molto sentita dalla cultura popolare: i tesserati alla Figc sono 1,4 milioni (833mila quelli delle giovanili), secondo una recente ricerca sarebbero addirittura 4,6 milioni gli italiani che giocano al calcio. In Belgio, il calcio rappresenta invece lo sforzo tanto sportivo quanto politico di riunire più comunità, e di andare oltre gli steccati delle divisioni etniche e identitarie.
Gli italiani sono stati la comunità straniera più numerosa in Belgio sino agli anni Settanta, e la colonna sonora che sedusse i belgi e mezzo mondo fu quella delle struggenti canzoni di Salvatore Adamo, cento milioni di dischi venduti: suo padre aveva lasciato Comiso per ficcarsi nelle miniere valloni, a Jemappes. “Affida una lacrima al vento” fu quasi un inno, come “La nuit” e “Tombe la neige”, mentre “Perduto amor” e “Dolce Paola” fecero scrivere paginate di gossip sul presunto innamoramento del divo italo-belga nei confronti della regina Ruffo di Calabria.
I sogni dei poveri. C’è dunque tanto, forse troppo, dietro questa partita, dove si affrontano simbolicamente tristezze e gioie, nostalgie e speranze, storia e controstoria. Dove i figli di un paese “con delle cattedrali per unica montagna” (immortale verso di Jacques Brel, che da ragazzo giocava nella squadra del Saint-Louis, il suo liceo) cercheranno di sconfiggere i “ritals” che di cattedrali, duomi e montagne bellissime ne hanno così tante da stordire il mondo, e che hanno battuto i belgi 14 volte, su 22, perdendo solo quattro partite (e pareggiandone 4).
Provo ad immaginare, al posto dello splendido stadio Allianz di Monaco di Baviera – teatro del quarto di finale – dei ragazzi che giocano a palla in un prato, e in una regione in cui i cumuli delle scorie minerarie sono diventate colline, in cui generazioni di immigrati italiani hanno fatto grandi i giorni delle miniere e del football di una volta. Il calcio è il patrimonio della loro memoria. Perciò, a costo d’essere irragionevoli, vincere è un dovere, per i ragazzi di Mancini.