L’abuso di un genere lo rende alla lunga insopportabile. Ciò che inizialmente garantisce risultati, se ripetuto a oltranza può diventare un autogol. A causa dei tanti dilettanti in circolazione, anche la pratica del vittimismo rischia di sortire effetti contrari all’iniziale obiettivo. Sta succedendo in quell’autonarrazione del male imposta prima nel giornalismo e che adesso molte persone fanno propria.
Il libero professionismo. Schermi piatti e social network sono invasi da un marketing del Sé che prevede rivelazioni su duri periodi personali appena smaltiti. Ci si racconta come costanti sopravvissuti, perpetui revenants scampati a un qualche peggio e ora tornati più forti. Pronti a dire, pronti a dirsi. Adagiati su un meccanismo teso a celebrare una vittima, vera o presunta, alla quale tutto è concesso. L’era di Münchausen, dove s’è tutti superstiti di qualcosa.
È successo con l’orrenda parola resilienza, nata per indicare resistenza a traumi eccezionali e che invece si è preteso di spalmare sul quotidiano: testimonianza dello scempio che l’ha resa indigesta a chiunque.
Succede anche nel settore dello spettacolo. Nell’offrirsi al pubblico a molti artisti è richiesto lo sfoggio di una fase di malessere superata con brio. Va bene anche un minimo sindacale, in mancanza d’altro. Attacchi di panico, brevi tachicardie. L’obsoleto talento non basta evidentemente più. Chi ha cavalcato da subito questo fenomeno ne ha però trascurato l’effetto di ritorno: quello che vuole una vittima pura e senza macchia fino all’inumano. Nostra Signora dell’Ascesi in attesa di beatificazione, alla quale milioni di reCensori passano in revisione il curriculum vita&miracoli in cerca di falle. Destinata al martirio, perché nel momento stesso in cui osa esibire un qualche riscatto ha già tradito il proprio ruolo.
Questa tendenza elimina di fatto qualsiasi discorso pratico sul merito. Rischia di inquinare conquiste fatte nel campo dei diritti sociali per mano di vittimisti allo sbaraglio che oggi popolano il settore, pronti a cavalcare un’onda. E che ne ignorano l’effetto collaterale più dannoso: per ogni vittima è sempre previsto almeno un carnefice. Un simile meccanismo spinge l’astio sociale verso nuove vette, per via di una lotteria dell’attribuzione di colpa che ad ogni estrazione rischia di ribaltare i ruoli. Il nostro quotidiano si è così riempito di martiri improvvisati riconvertiti nel giro di poche ore in aguzzini (e viceversa) da una giuria imPopolare. Col risultato di rendere spesso invisibile chi vittima lo è davvero, stretta in una condizione segnata dall’incapacità d’esprimere il proprio disagio.
Si resta così appesi, in attesa dell’uscita da questo franchising del compatimento per tornare a ricostruire le identità su basi reali. Fisse a colonne portanti capaci di sorreggere una persona per quello che sa essere, e non per quello che ha eventualmente dovuto subire. Lontani da lamentele amatoriali che stanno svilendo anni di autocommiserazione portata avanti in maniera seria e professionale.