“Quando diventerò polvere vedrai il mio sorriso”. È una questione spettacolare, tragica ed epica, di storia della rivoluzione cinese quell’800 Eroi, mega produzione cinese tra i film in concorso più acclamati durante la 23esima edizione del Far East Film Festival di Udine. Il kolossal storico diretto da Guan Hu, in questi giorni nelle sale italiane grazie a Notorious Pictures, è una di quelle immersioni totalizzanti, computer grafica impeccabile e (paradossalmente) invisibile, in un fatto di guerra eclatante, anzi di resistenza nazionale al nemico invasore (i giapponesi), del Novecento cinese, visualizzato nell’anno 2021 (la produzione è 2020) come un ardito, plumbeo, dilaniante Soldato Ryan made in China. Al centro, a livello spaziale e di senso, del racconto c’è un deposito di armi e munizioni appena pochi metri a Nord del fiume Sizou, in piena Shanghai, difeso da un manipolo di 800 eroici soldatini nazionalisti e maoisti. Siamo nell’ottobre del 1937 e lo spietato esercito giapponese ha invaso il Nord della Cina, scendendo poi inarrestabile verso Sud. 800 Eroi inizia con un travelling insinuante in mezzo all’erba alta ai confini di Shanghai, poi subito nelle periferie distrutte, cumuli di macerie, della grande città cinese, dove qualche sparuto cecchino prova ad arrestare i temibili nemici sparacchiando que e là, ma finendo sgozzato.
L’andamento è subito sostenuto. Puro cinema d’azione corroborato da un contesto guerresco spielberghiano, livido, piovoso, angoletti minuti, veri e propri scheletri di edifici e case, dove ripararsi dalle pallottole. Poco più in là si organizza la difesa del magazzino del Si Hang. Un’armeria parallelepipedo di quattro piani che diventa baluardo e senso storico di una nazione unita (il manifesto del Wayaobu dove Mao si unisce al Kuomintang è del ’35), ma anche scenario di una visione della visione perché alle spalle, a sud, del magazzino scorre il fiume Sizou, e oltre la sponda del fiume meridionale, a nemmeno cinquecento metri, ecco la cittadella di Shanghai delle concessioni straniere, luci sfavillanti, night club, ricchi signori ai piani alti, profughi del Nord in fuga, tutti intenti ad osservare proprio ciò che accade tra i piani in fumo dello Si Hang con i binocoli, i cannocchiali o semplici sguardi stretti ravvicinati verso la balaustra fluviale. I giapponesi lì nella cittadella zeppa di americani e britannici non possono entrare.
Troppi interessi economici in gioco, anche se c’è da invadere e possibilmente distruggere la Cina e quindi niente bombardamenti: solo scontro con il coltello tra i denti. La chiave di un film monumentale, rutilante, senza mai un attimo di respiro sta proprio in questo distintivo orientamento dell’osservazione tra guerra e osservazione della stessa, in questo basculare del punto di vista tra la resistenza insanguinata, impolverata, intossicata (i giapponesi lanciano anche i gas) degli ottocento (tra loro si distingue il contadinello Duanwu – la popstar Ou Hao) e la placida sicurezza della cittadella. Soggettive minuziose e campi lunghi disperanti della città in fiamme, scenario aperto, spalancato (arriva perfino un enorme zeppelin a solcare il cielo grigio), concitato e brulicante, scene di massa e corpo a corpo action, 800 eroi fa inarcare le sopracciglia per lo stupore, avvince, e insegna finanche con opportuna retorica (chi ne è esente nei film sulla seconda guerra mondiale e anni affini alzi la mano?) cosa significhi il concetto di sacrificio dell’essere umano di fronte, perfino, a voleri e averi dei potenti capitalisti dell’epoca. Produzione stratosferica, otto mesi di riprese, scenari interamente ricostruiti in esterno. Grazie Far East. Lo sappiamo, ma spesso lo dimentichiamo, non si vive di soli kolossal epici hollywoodiani.