Quanto tempo ha davanti a sé il governo Draghi? La crisi del M5s, le scorribande di Salvini al fianco di Orbàn, il Pd che nell’azione dell’esecutivo sembra perderne parecchie (ultima puntata il fisco). Tutti parlano di scadenza naturale della legislatura, 2023. Ancora oggi ne parlano Luigi Di Maio, impegnato nel frattempo anche nel ricomporre la rissa tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte, ed Enrico Letta, che sulla scia del governissimo intende formare un’alleanza di centrosinistra che possa vincere le elezioni (e ci vuole molto, molto ottimismo). Ma con i Cinquestelle un po’ male in arnese e un raffreddamento dell’attaccamento e della fede nella vecchia alleanza giallorossa, il Pd si sente un po’ spalle al muro.

Così il segretario Enrico Letta attacca l’altro lato della maggioranza: “Le destre populiste e sovraniste raccontano agli italiani delle favole che non hanno alcun rapporto con la realtà. Non si può stare con Draghi e non si può stare con Orbàn allo stesso tempo: sono due politiche incompatibili, non si può tifare per l’Inter e il Milan contemporaneamente, non si è credibili”. Se Salvini per non rispondere tenta di fare una battuta (“Ho una linea sola, ho perso 8 chili”), manda però i suoi capigruppo ad attaccare. E loro dicono, in sostanza, che se non gli sta bene stare al governo può sempre andarsene. “Pur di restare al potere il Pd si è alleato con chiunque – scrivono in una nota Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo – In Europa stava in maggioranza al fianco del Ppe anche quando c’era Orbàn e ora abbraccia i governi dei Paesi frugali che remavano contro l’Italia. In Italia, il Pd ha governato con chiunque, elemosinando il sostegno di avversari storici come Berlusconi, i grillini e perfino Renzi. Forti nel Palazzo, deboli nelle urne. Visto che Draghi lo sta smentendo su tutto (basti pensare al Mes o alla patrimoniale), Letta ne tragga le conseguenze e, se vuole, esca dal governo”. L’ultimo riferimento dei capigruppo è al testo in materia di fisco che la maggioranza ha prodotto come indirizzo (non vincolante) di governo dopo 6 mesi di audizioni e rielaborazioni. Il documento ha fatto esultare l’ala destra della maggioranza come nemmeno il gol di Insigne ha potuto: la patrimoniale presente nelle prime bozze è scomparsa, c’è invece la mini-flat tax che tanto piace a Lega e Forza Italia e ovviamente c’è anche l’abolizione dell’Irap che è un cavallo di battaglia di Confindustria. Tale è stata l’euforia che un berlusconiano, l’onorevole Sestino Giacomoni, ha dichiarato l’avvenuta vittoria nella “battaglia culturale iniziata nel 1994”. Sul documento si sono astenuti solo i Liberi e Uguali.

A Molinari e Romeo risponde la capogruppo del Pd alla Camera Debora Serracchiani: “L’agenda del governo Draghi è l’agenda del Pd. Non si può dire lo stesso della Lega, a cominciare dalla giustizia e dal fisco, come si vede proprio in queste ore. La conversione europeista di Salvini è già uno sbiadito ricordo e la linea comune con le destre europee dimostra quanto la scelta di campo di Salvini sia alternativa a quella del governo. Se c’è qualcuno che deve trarre le conseguenze, cari Molinari e Romeo, siete proprio voi”. Insomma, siamo al punto che tutti si litigano Draghi.

A mettere sotto pressione l’esecutivo delle larghissime intese c’è anche, poi, l’elezione del prossimo presidente della Repubblica, specie ora che mancano solo 4 settimane all’inizio del cosiddetto semestre bianco, il periodo in cui il capo dello Stato Sergio Mattarella non può sciogliere le Camere e nel quale le forze politiche potrebbero scatenare i loro peggiori istinti. Di più: ieri, dopo il solito zigzag, il segretario della Lega Matteo Salvini è tornato a candidare il premier Mario Draghi al Quirinale, il che darebbe per implicito il fatto che il “governone” andrebbe a farsi benedire. Lo scenario fa atterrire parecchi tra i leader di partito perché vorrebbe dire andare ad elezioni. “Mi auguro che si possa completare la legislatura perché altrimenti l’Italia apparirà agli altri Paesi non credibile e non affidabile – dice il ministro degli Esteri Luigi Di Maio – Dobbiamo essere credibili per ottenere i fondi, se l’Italia prende impegni e si dimostra instabile a pagare saranno i cittadini, non i politici”. Anzi, alla viceministra Laura Castelli chiedono quale effetto possa provocare la crisi interna ai cinquestelle e lei risponde: “Zero”. Ma a questo coro si aggiunge anche Silvio Berlusconi – che sogna il Quirinale ma sa che è più lontano di quanto desideri, come ha scritto oggi il Corriere della Sera: “Il governo ha un compito fondamentale, quello di far uscire il Paese dalla peggiore crisi del dopoguerra – spiega a Fortune Italia – Lo abbiamo voluto per questo, sono stato io il primo a chiederlo, come soluzione eccezionale per tempi eccezionali. Deve finire il suo compito”. Insomma: non c’è alternativa all’approdo al 2023.

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