Il capitolo più noto dell’inchiesta sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato che ha visto il rinvio a giudizio di Angelo Becciu, riguarda l’investimento nel fondo Athena Capital Global Opportunities Fund del finanziere Raffaele Mincione. L’operazione risale alla seconda metà del 2013-inizio 2014, quando la Segreteria di Stato si indebita con Credit Suisse per duecento milioni di dollari per investirli nel fondo di Mincione (100 nella parte mobiliare, 100 in quella immobiliare, legata al palazzo londinese di Sloane Avenue 60).
L’investimento, altamente speculativo, porta a gravi perdite per la Santa Sede, come ricostruisce Vatican News. Al 30 settembre 2018 le quote avevano perso oltre 18 milioni di euro rispetto al valore iniziale, ma la perdita complessiva è stimata di un importo ben più consistente. Mincione come emerso nei mesi scorsi, avrebbe usato i soldi del Vaticano per realizzare operazioni imprudenti e per tentare scalate a istituti bancari in crisi come Banca Carige.
Di fronte ai risultati, la Segreteria di Stato cerca quindi di uscire dall’investimento e di entrare in possesso dell’immobile. L’operazione prevede che dal Vaticano vengano versati 40 milioni di sterline a Mincione in cambio delle sue quote. Si decide di affidarsi a una società di un altro finanziere, Gianluigi Torzi, il quale riesce a mantenere il controllo con un escamotage: uno Share Purchase Agreement sottoscritto dalla controparte che di fatto sottrae alla Segreteria di Stato il controllo dell’immobile di Londra. L’accordo passa per la creazione di 1.000 azioni della società GUTT SA, uniche titolari dei diritti di voto sulla proprietà. Le altre 30.000 azioni possedute dalla Segreteria di Stato, invece, non avevano diritto di voto. E così uscito di scena Mincione, la Segreteria di Stato si ritrova cosi con un altro finanziere in Vaticano con ogni potere decisionale.
I magistrati vaticani indicano in Enrico Crasso (l’uomo della finanza che da decenni aveva in gestione gli investimenti della Segreteria di Stato) e in Fabrizio Tirabassi (dipendente in qualità di minutante dell’Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato) due figure chiave e ritengono che abbiano ottenuto provvigioni da Mincione e pagamenti in contanti da Torzi per averli fatti entrare in Vaticano. I magistrati ritengono inoltre, secondo la ricostruzione di Vatican News, che “né mons. Alberto Perlasca, sottoscrittore dello Share Purchase Agreement, né i suoi Superiori, il Sostituto Edgar Peña Parra e soprattutto il cardinale Pietro Parolin, fossero stati effettivamente informati e comunque fossero consapevoli pienamente degli effetti giuridici che dalle diverse categorie di azioni sarebbero scaturiti”. La stessa procura del Sostituto, che sarebbe stata necessaria per firmare l’accordo, viene ottenuta post-factum e senza che i superiori vengano messi a conoscenza del fatto che il controllo rimarrà in mano a Torzi. Al quale sarebbero poi stati versati 15 milioni di euro per uscire di scena.
Secondo i magistrati vaticani, inoltre, l’AIF, l’Authority di vigilanza finanziaria, avrebbe “trascurato le anomalie della operazione di Londra – della quale sin da subito era stata messa a parte – soprattutto considerato il patrimonio di informazioni che, per effetto delle attività di intelligence, essa aveva acquisito”. L’AIF ha svolto, secondo la documentazione prodotta dall’accusa, “una funzione decisiva nel completamento del processo di liquidazione delle pretese di Gianluigi Torzi”.
Il cardinal Becciu, già Sostituto della Segreteria di Stato, non entra subito nell’indagine. Viene coinvolto perché i magistrati gli imputano delle “interferenze” e ritengono che vi sia lui dietro le offerte di acquisto del palazzo emerse improvvisamente a fine maggio 2020 pochi giorni prima dell’interrogatorio di Torzi. Secondo le testimonianze Becciu avrebbe anche tentato di far ritrattare Perlasca. Nell’inchiesta sono entrati anche i pagamenti fatti dalla Segreteria di Stato a Cecilia Marogna su indicazione di Becciu. La società della donna ha ricevuto tra il 20 dicembre 2018 e l’11 luglio 2019 versamenti effettuati dalla Segreteria di Stato per 575.000 euro. Le indagini attraverso rogatoria hanno permesso di accertare che tali cifre “sono state utilizzate, nella quasi totalità, per effettuare acquisti non compatibili e quindi non giustificabili con l’oggetto sociale della stessa società”.
Infine, i magistrati contestano a Becciu di aver finanziato e fatto finanziare la cooperativa del fratello Antonino. Si tratta di 600.000 euro provenienti dai fondi della Conferenza episcopale italiana e di 225.000 euro provenienti dai fondi della Segreteria di Stato. Le donazioni sarebbero state “ampiamente utilizzate per finalità diverse da quelle caritatevoli cui erano destinate”.