di Mario Casari

Ultimamente abbiamo subito la fastidiosa caciara mediatica su un argomento che ciclicamente riaffiora: imprenditori disorientati dai perentori rifiuti a quelle che nella loro particolare visione sarebbero delle convenientissime offerte di impiego. Sconcerto condito con dichiarazioni quasi schifate nei confronti di quei giovani o meno giovani che preferirebbero prendere un sussidio dallo stato che lavorare.

Se non conoscessimo bene questa nostra società simmetricamente opposta al giusto, saremmo portati persino a dargli ragione. Lo farebbe uno straniero non avvezzo ai nostri costumi, o qualunque forma di vita intelligente sufficientemente aliena. Dovremmo allora istruire questo straniero ingenuo, fornirgli le basi per una comprensione che è ardua persino per chi in questo strano paese è nato. Compito difficile perché siamo forse in grado di descrivere i sintomi della nostra malattia, ma l’origine ci è sconosciuta. A dire il vero l’essere dotati di un minimo senso di civiltà ci impedisce qualunque movimento di intelletto che si avvicini anche minimamente alla comprensione. Perché comprensione implica immedesimazione, e questa, con tutti gli sforzi, non ci riesce.

Nel mondo esterno, che consideriamo lontano dall’essere perfetto ma associamo alla normalità, valgono le regole del capitale, in modalità più o meno liberiste a seconda dei paesi. Non siamo marxisti esaltati e se anche lo fossimo ci siamo adeguati, attrezzandoci per sopravvivere. Perché anche il lavoro dovrebbe sottostare alle regole del mercato. L’imprenditore mette sul piatto un’offerta, il lavoratore la sua professionalità più o meno specializzata a seconda dei casi e se il salario combacia con lo spessore professionale della controparte, l’affare è concluso. Diretto, lineare. Forse impegnativo, non consente passi falsi, espone ai fallimenti, tuttavia semplice.

Ma questa chiarezza non ci è concessa. Certi datori di lavoro non accettano neanche l’idea di uno scambio contrattuale alla pari. Nella loro personale visione, e anche in quella di quel pezzo di paese che gode di privilegi piccoli o grandi, sono dei benefattori. L’unica cosa che concedono al prossimo è accettare le loro condizioni con riverenza. E sebbene quanto riportato dai giornali riguardasse i lavori stagionali, il discorso è molto più ampio. Incredibilmente riguarda anche i lavori altamente qualificati, sia in riferimento alle grandi aziende che si spartiscono il grosso degli appalti pubblici sia parzialmente e inspiegabilmente a quelle che agiscono prevalentemente nel privato.

Non è solo commistione tra politica e affari, aspetto pur importante, è un intero sistema basato su logiche sostanzialmente familistiche e mafiose. Tali aziende riescono nell’inspiegabile impresa di appiattire unilateralmente il livello dei salari rispetto agli standard europei, qualunque sia il livello professionale delle figure richieste. E, in barba alle leggi del mercato e della competitività, persino nelle loro dinamiche interne possono permettersi il lusso di schifare intelligenza, talento e competenze e premiare la mediocrità. Consultare certi organigrammi è come scalare dal basso fino al vertice i gradini della stupidità.

In tutto ciò la modernità e in definitiva la civiltà è solo una goffa imitazione di costumi esteri. Qualcosa che non si comprende ma va di moda, e alla quale bisogna atteggiarsi. Sullo sfondo c’è un cittadino che non ha piena dignità, a meno che non faccia parte delle famiglie di piccole e grandi privilegiati. Che non può portare a termine quel processo di crescita individuale, di piena consacrazione del proprio essere nella vita e nel lavoro che dovrebbe essere il valore fondante di ogni società. Un cittadino che a volte si ribella fino allo sfinimento ma che alla fine deve inesorabilmente cedere. Perché esiste un’unica vera alternativa a una vita da triste servo al guinzaglio: andare via, emigrare.

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