Sono qui che ascolto l’annunciata spiegazione su quanto accaduto, ovvero su cosa intendessero le due under 30 Francesca Mapelli e Imen Jane, annoverate da Forbes come talenti 2020, quando hanno sostenuto che se una lavoratrice di una pasticceria di Palermo, pagata 3 euro l’ora, si fosse informata sulla storia del negozio o comunque – anche se pagata poco – fosse stata abbastanza intraprendente da studiarsela, “avrebbe potuto avere l’occasione di essere pagata tre volte tanto come guida turistica” magari per le milanesi “rompicoglioni” a Palermo. Tutto, ovviamente, comunicato con disappunto al proprietario del lido di dove erano a fare colazione, prima di partecipare a una “battuta” di raccolta di plastica dalle spiagge, prontamente condivisa sui social.

La diffusione di questo siparietto, il cinque trionfale che si sono date, la spocchia che hanno trasmesso in pochissimo tempo hanno sollevato polemiche su ogni piattaforma. Anche perché la rete non dimentica chi millanta lauree in Economia che non ha (Imen Jane), né tanto meno tollera chi così platealmente pensa di poter spiegare e insegnare la realtà ai propri coetanei dimostrando però di non potere essere più lontano dal conoscerla.

La spiegazione per me non c’è stata. Da parte di Imen Jane ci sono state delle scuse basate sulla superficialità nella comunicazione, sul “non mi rappresenta”, sul “grazie a chi ha capito”. Ma, per me, c’è stato anche un sottotesto importante: la abissale distanza tra “la comunicazione” che questi personaggi fanno (conveniente e a favore di like) e le persone che in realtà sono. Il loro sistema di valori, insomma, nella spontaneità viene fuori in tutta la sua pochezza.

Di positivo c’è che nelle ultime ore c’è stata una bella corsa a dissociarsi dal Imen Jane&C. Gli organizzatori dell’evento plasticfreeit di Palermo hanno precisato che nessuna influencer era stata assoldata per pubblicizzarlo, l’account di Will ha precisato che “sono cose che non ci riguardano” (eppure Imen nelle sue descrizioni conserva ancora il “Co-founder & Partner at Will Media”: come si spiega?). In ritardo anche Vice, di cui Francesca Mapelli è “Director, Southern Europe || @i_d & i-Deas || at @vice Media Group” (ah, ma quindi siamo nel campo della democraticissima moda) si è dissociato.

Ebbene, facciamo così: pure io vorrei dissociarmi.

E’ un appello, forse inutile ma accorato, che rivolgo ai marchi, ai media, ai talent scout, alle agenzie di management, alle piattaforme, agli editori, ai miei coetanei e ai più giovani: è possibile dissociarsi da questa rappresentazione delle nuove generazioni?

Disclaimer preventivo: ciò che segue è una pletora di luoghi comuni per molti, ma che ritengo oggi necessari.

Influencer, para-influencer, TikToker, nuovi esperti: questi personaggi, non importa quanto mentano, quanta spocchia abbiano, quanto siano scollati dalla realtà o quanto siano paradossali e goffi nel loro scimmiottare un potere che non hanno, continuano ad avere credito nei salotti, agli eventi, ai convegni, alle presentazioni dei libri, nei circoletti che contano, nei premi. Un po’ se lo cercano, un po’ li cercate. Non importa.

Importa che è così che si costruisce la loro notorietà oggi e il loro essere personaggi emblematici di una generazione che cresce, in assenza di reali opportunità di lavoro, pensando che il successo sia scartocciare regali griffati e scarpe di marca in una storia Instagram, che informazione siano le marchette mascherate, che contare qualcosa si misuri in inviti a party esclusivi o nel novero in classifiche che, di sicuro, sono quanto men poco trasparenti.

Instagram e TikTok sono la tv delle nuove generazioni. Quindi è davvero con questi personaggi che credete si debbano raggiungere e fidelizzare? Siete sicuri sia questa la comunicazione che funzioni e che funzioni sul lungo termine? E’ producente continuare a gonfiare questa bolla di rimpalli di notorietà? Dico la mia, sia mai che sia condivisa da qualcuno.

Vorrei dissociarmi da quello che credete possa piacerci. Non trovo nessun valore aggiunto in tutto questo. Nulla che non sia spazzatura facilmente raggiungibile con una serie ambientata in un’high school americana. Oggi parliamo di Imen Jane e Mapelli, ma ce ne sono mille che provano a prenderci in giro dietro la cortina di fumo dell’autenticità.

Sono quelli che intervengono su questioni importanti solo se portano like e gradimento, salvo poi vendere anche la propria arte al migliore offrente.

Sono quelli che non leggono un giornale o un libro da una vita ma che per “informarsi” su questioni spinose e complicatissime consigliano di seguire i 30 secondi di stories di un interessantissimo profilo Instagram a caso: informarsi lì è come dire che si sa leggere solo perché si conosce l’alfabeto.

Sono quelle che fanno “body positivity” quando porta soldi e fama e senza comunque disdegnare photoshop.

Sono quelli dei diritti dei gay ma solo quando c’è un “Io, perseguitato”.

Sono quelli del femminismo sì, ma basta che abbia uno slogan semplice.

Quelli che fanno milioni di seguaci perché hanno una storia strappalacrime alle spalle ma nessuno capisce che hanno fatto fortuna sull’incapacità delle persone di capire cosa stavano guardando o sull’opportunità politica del loro messaggio.

Per dirla con la diplomazia di una mia cara amica, tutta questa narrativa “totalizzante” non è altro che una rappresentazione molto parziale della realtà o della finzione che può piacerci e abbindolarci. “Esiste un mondo fuori da lì che Imen Jane per fortuna non sa neanche chi minchia sia” mi ha detto.

Per dirla a modo mio: ma pensate davvero che siamo tutti scemi? Spoilero. No, non lo siamo. E dovreste smettere di trattarci come tali.

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